Veniva verso di
me con sguardo allucinato. Mi fissava dritto negli occhi, ma era come se non
mi vedesse. Caracollava, più che camminare.
Era una donna. Poteva avere cinquantacinque anni. Era ancora bella; vestiva
sobriamente ma con abiti che rivelavano ad un occhio attento il loro alto
prezzo. In mano stringeva una borsa di plastica della spesa. Era evidente
che stava male; o che le era accaduto qualcosa. Qualcosa di brutto.
Erano le undici e un quarto di uno degli ultimissimi giorni di Agosto.
Piazza XX Settembre era gremita. Le bancarelle del mercato erano variopinte.
Voci e movimento ovunque. Faceva fresco. Già si presagivano le piogge di
settembre che avrebbero spazzato l’estate.
Mi ero allenato (nuovo record personale: 1000 colpi di gomito e 250 calci
circolari al sacco pesante) ed ora mi godevo una passeggiata nel centro
storico.
Nei miei piccoli, antichi negozi preferiti, avevo acquistato una crema da
barba al mentolo, uova e latte fresco, muesli croccante, una bomboletta di
benzina per il mio Zippo, una rivista di Thai boxe francese, un CD di
Salieri e uno di Paola Turci, un libro di scacchi sui finali di torre, e uno
di Fruttero e Lucentini (L’amante senza fissa dimora).
Avevo messo tutto nello zaino e ora tornavo alla mia bicicletta da corsa per
andare a casa.
La donna – come in qualche modo avevo immaginato – si aggrappò al mio
braccio. Stavo per chiederle cosa non andasse, ma lei mi precedette.
“Mi aiuti, la prego.” Mormorò.
“Cosa le succede, signora?” Domandai. Mi sentivo un po’ imbarazzato, ma
tutto sommato incline alla buona azione.
Mi fissò negli occhi. I suoi erano gonfi e arrossati. Non mi rispose.
Ripetei la domanda. La sentivo tremare.
“Un malore... – Disse infine – Forse un colpo di sole... o un calo di
pressione, non so... Mi potrebbe accompagnare a casa?”
“Be’, sì... ma... abita lontano? Non sarebbe meglio chiamare qualcuno? Che
so?... un marito... un figlio... un’amica...”
“Non ho nessuno. Vorrei solo andare a casa. Abito qui vicino, dietro la
chiesa di San Bartolomeo. Glielo chiedo per piacere.”
Era davvero vicino – non più di cento metri – e si trattava soltanto di
reggerla per un braccio fino a destinazione.
“D’accordo, ma poi, a casa... insomma... qualcuno potrà occuparsi di lei?”
Parve sollevata. “Sì, certo... rientrerà tra poco la mia domestica.”
“Bene; andiamo allora; si appoggi al mio braccio e mi dia la sua borsa.”
Arrivammo in breve.
La donna rimase zitta per tutto il tragitto. Stringeva il mio braccio con la
mano che le tremava. Continuava a guardare fisso davanti a sé come non se
vedesse nessuno.
Dinanzi al suo portone (si trattava di un vecchio, cadente ma lussuoso
palazzo) cercò le chiavi. Aprì e si infilò dentro con una sorta di balzo
repentino che non mancò di stupirmi.
Le resi la borsa.
“Se si sente meglio – dissi – io andrei.”
Mi fissò angosciata. “No, no... - implorò –... Le scale... non so se da
sola... Entri!”
Entrai.
Lei richiuse il portone con uno scatto violento. Ci fu un tonfo sordo e
l’androne (antico androne di palazzo nobiliare) piombò nel buio. A parte il
suo respiro affrettato, calò improvvisa una pesante assenza di rumori.
Sentore d’umidità. E di muffe. Sottili fragranze di fiori dal giardino
interno.
Mi sentii tagliato fuori dalla vita brulicante della città.
La donna frugò maldestramente nella borsa. Cercava febbrilmente e imprecava
tra sé. Nel buio non capivo cosa stesse armeggiando.
Poi estrasse qualcosa e protese di scatto il braccio. Provai un dolore acuto
e insostenibile al fianco e mi ritrassi urlando. Andai a sbattere di schiena
contro il portone. Mi portai la mano al punto dolente e strinsi qualcosa di
duro. Lo strappai, istintivamente. La donna gemeva rabbiosa a un metro da
me. Balzò in avanti tentando di riprendere ciò che avevo in mano. Reagii
d’istinto, con gli automatismi proprio di anni di boxe tailandese. Colpii
con la mia tibia indurita il suo quadricipite, in un calcio basso pieno di
rabbia e paura. Sentii il mio osso robusto penetrare nella sua carne
flaccida e urtare il femore.
La donna urlò e s’afflosciò, gorgogliando di sofferenza. Mi spostai di
qualche metro, verso la luce del cortile interno. Mi sentivo fradicio di
sudore. Mi levai lo zaino, alzai la maglietta ed esaminai il fianco.
All’altezza dell’anca c’era una piccola chiazza di sangue. Sotto, un foro
già tumefatto. Mi guardai in mano. Stringevo un ferro da calza con la punta
insanguinata.
La ferita era dolorosa ma lieve.
Mi domandai se mi trovavo in stato di shock. Conclusi di essere solo
sbalordito e confuso. Mi ripetei che al mondo accadono cose anche più
inspiegabili, ma non riuscii a convincermene pienamente. Mi chiesi però cosa
dovevo fare.
Conclusi di avere fondamentalmente due alternative: denunciare il fatto,
oppure levarmi di torno.
Ma se me ne fossi andato e basta la donna – certamente una pazza – avrebbe
potuto colpire nuovamente.
Tornai da lei.
Cercai a tastoni l’interruttore e accesi la luce.
Sembrava un fagotto di stracci. Era ancora distesa nella polvere
dell’androne, rattrappita, le mani strette sulla coscia; il viso raggrinzito
rigato di lacrime di dolore e di rabbia.
La guardai per qualche secondo, cercando di capire che tipo di danno avesse
provocato il mio calcio. In realtà, paradossalmente, temevo conseguenze
legali. Alla fine estrassi il cellulare e iniziai a digitare il numero di un
mio amico avvocato.
Ma la donna parlò, ed io mi interruppi.
“Lei è in gravissimo pericolo.” Mi disse, con voce ferma, ed io mi sentii
come paralizzato. In qualche modo compresi che non scherzava. Lasciai
perdere il telefono.
“L’ascolto.” Dissi.
“Non qui. Mi aiuti ad alzarmi. Ho la gamba come paralizzata.”
L’aiutai. Questa volta stava male sul serio. Non che mi dispiacesse.
L’appartamento era come me lo attendevo: elegante, arredato con mobili
antichi, stucchi, specchi, grandi quadri, spessi tappeti.
Senza perdere di vista la donna che si era buttata su di un monumentale
divano, mi ero fatto indicare il bagno. Rapidamente, mi ero disinfettato e
messo un cerotto.
Andai in cucina a frugare nel frigorifero. Mi versai da bere del tè freddo.
Sentivo una sete innaturale consumarmi. Tornato in salotto, prima di parlare
consumai una mezza bottiglia ghiacciata. Rimasi per un po’ seduto all’altro
capo della stanza, con lo sguardo fisso sul mio zaino, come per ritrovare da
qualche parte qualcosa di famigliare, di consueto, di normale. Infine tornai
in cucina. Presi dal freezer un pacchetto di gel ghiacciato e lo porsi alla
donna sdraiata.
“Se lo metta sulla coscia e mi dica tutto.”
Parlò. Piagnucolando ma parlò. Parlò senza che ci fosse bisogno di sollecitarla. Per quanto fosse assurdo, ciò che mi disse mi convinse che non era pazza.
“Un gioco... un gioco per ricche persone annoiate come me... non credevo fosse vero... una specie di catena di Sant’Antonio, o come si usa dire oggi un gioco di ruolo... un gioco di ruolo che non è un gioco... una catena di Sant’Antonio che non si può interrompere, se non con la morte, e, soprattutto, pena la morte... C’è un passaggio di consegne, e si entra nella spirale... per uscirne si deve uccidere qualcuno... chiunque, non importa chi... è casuale. Se non lo si uccide si è morti, e la vittima prescelta, se riesce a scampare, per essere libera, deve a sua volta uccidere...”
“Altrimenti?” Nonostante avessi finito la bottiglia, avevo la gola secca e biascicavo più che parlare.
“Altrimenti verrà comunque ucciso. Sarà un bersaglio, una preda di altri concorrenti, fino a che non sarà morto. O avrà ucciso a sua volta.”
La guardai, sperando fosse davvero pazza; ma sentivo che diceva la verità.
“Quindi, ora dovrei io uccidere qualcuno, se ho capito bene... chiunque...”
“Sì, è così... è orribile ma è così...”
“E a lei?... Cosa accadrà a lei?”
Mi guardò con occhi sbarrati. Si morse il pugno chiuso.
“Devo provare ad uccidere qualcun altro... - quasi gridava - Devo uccidere o
verrò a mia volta uccisa!”
Mi alzai. Passeggiai per la stanza. Cercavo di riflettere. Attraverso i
tendaggi filtrava la luce del mezzogiorno. Dalla strada provenivano i rumori
di sempre, ma già non lo erano più. Sentii una fitta di nostalgia, ma
fredda, quasi impersonale.
Pensai ai sottintesi di tutta quanta la faccenda. La giudicai di una crudele
semplicità.
“Forse ho la soluzione del problema.” Dissi.
Uscii con lo zaino in spalla, un cerotto sul fianco, e un litro di tè che
già mi si inacidiva nello stomaco. Ero stupito di come in fondo fosse stato
facile chiudere il cerchio.
Con un’operazione in fondo semplice avevo salvato la mia vita e –
contemporaneamente – quella di un innocente. In fondo, la signora era
un’assassina, ed era già come morta. Io avevo solo – appunto – chiuso il
cerchio.
Un ferro da calza in gola. Come bucare un sacchetto di plastica.
Poi udii un rumore fragoroso di vetri infranti. Intorno a me qualcuno indicò
la finestra del palazzo dal quale ero appena uscito. Alzai lo sguardo.
La signora – furibonda, insanguinata, lo sguardo allucinato, il ferro da
calza che le spuntava dai due lati del collo come se si fosse trasformata in
un grottesco Frankenstein – mi indicava con il braccio proteso e tagliuzzato
dai vetri. Fiottando sangue che gocciolava sul marciapiede, gorgogliava
maledizioni, ingiurie e accuse. Chiamava a raccolta la folla cercando
d’aizzarmela contro.
Compresi d’essere stato frettoloso e maldestro, e di non aver affatto chiuso
il cerchio.
Mi confusi rapidamente tra la gente sbigottita, ed in breve raggiunsi la
bicicletta.
Mentre tornavo a casa già pregustando il libro di Fruttero e Lucentini (e il
CD della Turci) riflettei sulla precarietà – non della vita – ma della
morte.
Nell’ultima ora sembrava essere stata sempre presente, aleggiante su di noi,
ad un passo dal colpire, dall’averci già colpito... in realtà prendevo atto
che non l’avevamo veduta nemmeno nei rettilinei. In certo qual modo, era un
pensiero consolante.
Certo, sarebbe tornata. Ma Lei alla fine torna pur sempre.