-Porco...- Imprecò Bruno, il becchino del paese, rivolto alla terra
smossa davanti a lui.
Era successo di nuovo, la cassa sfondata, il rivestimento di zinco piegato
allesterno come i bordi di una lattina scoppiata.
Capitava ormai da anni, di notte.
Bruno ricopriva, si calava il berretto di lana sulle orecchie e se ne andava al bar.
Lì incontrava sempre quello scansafatiche del suo capo, Anselmo.
-Sei lultimo Anselmo!- Gli diceva -Si allevano le rane, non si pescano in palude.
Lui sbuffava, affondava i baffi nel bicchiere di vino e voltava la schiena.
Gli stivali di Anselmo affondavano nella melma fino alla caviglia, i
piedi asciutti ma ghiacciati come il suo vecchio culo.
La sua canna da cinque metri, lancoretta legata al filo di nylon mossa in un lento
ondeggio. Socchiudeva gli occhi, faceva oscillare il filo e agganciava con il rampino
lanimale molle.
Una, due, venti rane finivano nella borsa di cuoio. Pressate, sanguinanti dai fori
praticati dallamo ricurvo, strisciavano fra loro con versi rochi.
Poi il pantano si sollevava con rumori di risucchio, sbuffi di vapori mefitici si
diffondevano nellaria gelida e mani scarnificate si aprivano varchi tra la
fanghiglia.
Gli arti sollevavano i corpi decomposti che sbucavano dalla terra in una giornaliera
rinascita.
Anselmo offriva loro il proprio sangue. I denti e le gengive morte affondavano nel suo
corpo e ne succhiavano la linfa, voraci.
Il pasto si consumava rapidamente in un fetore di morte.
Placata la fame, essi ritornavano a riposare.
Anselmo si rivestiva, raccattava la sua borsa di cuoio, vi infilava la mano lorda di
sangue e fango, ne cavava una rana e se la infilava in bocca.
Con calma, sgranocchiando gli animali molli, riportava a casa il suo vecchio culo gelato.
La gestione del cimitero, anno dopo anno, si faceva sempre più difficile.