Ottanta,
forse novanta, coraggiose primavere. Parenti ormai lontani, i legami di sangue principali
spezzati tanto tempo prima, infranti dai soldati che avevano portato tutti in quei campi
terribili da cui solo pochi avevano poi fatto ritorno.
Lui era riuscito a tornare. Giovane, a malapena obbligato a radersi, e solo.
Adesso il vecchio si recava ogni giorno in quel parco che, curiosamente, era sempre
tormentato dal vento. Quel parco che un secolo prima era stato un cimitero e poi era
diventato giardino, le tombe spostate altrove.
Il vecchio camminava stanco ma ancora fiero.
Girava attorno al monumento ai partigiani, rivolgendogli un saluto, proprio lui che
giovane partigiano lo era stato, e poi si sedeva sempre sulla stessa panchina. Tirava
fuori un sacchetto e distribuiva briciole agli uccelli, che si affollavano zampettanti.
Il vecchio sorrideva ai bambini e ai loro accompagnatori; quando poteva riparava le loro
biciclette.
Il vecchio parlava al parco, narrando al vento i suoi ricordi, aprendo le sue ansie,
svolgendo i suoi ricordi, lasciando le sue sofferenze.
E il vento, che si insinuava tra gli alberi e che agitava i cespugli, lo circondava e lo
avvolgeva. Lo ascoltava.
Un giorno vennero quattro stronzi che volevano essere dei nazi e iniziarono a ingiuriarlo
e poi a picchiarlo per quello che lui era stato.
E il vecchio vedeva ancora morire genitori e fratelli.
Ad un tratto, il vento si gonfiò delle anime che avevano preso dimora nel parco. Prese
con sé due vecchi palloni come occhi, sollevò una bici abbandonata come testa, rese
braccia due rastrelli, trasformò in una bocca soffiante un bidone dei rifiuti, si avvolse
di giornali raccolti tutto intorno e si abbatté sui quattro come una furia, punendoli per
quello che erano.
Li spazzò via.
Adesso il vecchio non cè più, ma il vento ha la sua memoria.