Federico Greco - L'intervista

Federico Greco, regista e autore, direttore di festival (“Borderlands - Terre di Confine”, Bolzano); è stato critico e giornalista cinematografico (“Cineforum”, “Musica" di Repubblica, "Cinecittà News"). Come regista realizza diversi cortometraggi e documentari per la televisione satellitare (Raisat Cinema e Studio Universal), presentati in festival internazionali. Tra questi "Stanley and Us", un film-documentario su Stanley Kubrick distribuito in homevideo e tv in tutto il mondo; e HP Lovecraft - Ipotesi di un viaggio in Italia, presentato al Festival di Venezia 2004. Ha esordito al cinema con "Il mistero di Lovecraft - Road To L.", distribuito in DVD dalla Minerva Pictures (“Rarovideo”) e “01 Distribution” (Rai Cinema), e in Spagna da Selecta Visiòn. Lavora come regista free-lance per Rai e Sky, e dirige videoclip e spot pubblicitari.

FILMOGRAFIA

Cortometraggi
- Gerard (cortometraggio, 1999, 15’)
- Quilty (cortometraggio, 2005, 39’)
- Il capomastro (cortometraggio, 2006, 20')
- Uno stupido suicidio (cortometraggio, 2006, 16')
- Kung-tusion (cortometraggio, 2006, 15')
- Liver (cortometraggio, 2006-2007, 17')
- Alfa & Omega (cortometraggio, 2007, 22')
Documentari
- Nonostante Labaro (documentario, 1996, 15’)
- Il digitale nel cinema italiano (documentario, 2001, 66’)
- Ambiguità e disincanto (documentario, 2003, 34’)
- H.P. Lovecraft - Ipotesi di un viaggio in Italia (documentario, 2004, 26’)
- Fuori fuoco - Cinema, ribelli e rivoluzionari (documentario, 2005, 78’)
- Piero della Francesca e il restauro del Polittico (documentario, 2007, 52')
Lungometraggi
- Stanley and Us (docufilm, 1997-1999, 75’)
- Il mistero di Lovecraft - Road to L. (film, 2005, 85’)

SITO PERSONALE

www.federicogreco.com

L'INTERVISTA

[S] Qual è il percorso formativo che hai seguito per diventare regista?
[FG] Ho iniziato a vent'anni seguendo per un anno un corso di operatore cinetelevisivo. Da lì ho iniziato a lavorare come assistente operatore e poi è venuto il resto. Quello che reputo il mio vero esordio come regista è stato nel 1999 con "Stanley and Us", un documentario su Stanley Kubrick, venduto a RaiSat, distribuito in dvd in tutto il mondo e infine allegato al libro omonimo.
Ho seguito diversi corsi legati a vari ambiti professionali interni al mondo del cinema e della tv, ma mai un corso di regia, perché ho sempre avuto il sospetto che mi avrebbe indirizzato in una direzione che non sarebbe stata del tutto personale. Contemporaneamente però sapevo che dovevo acquisire strumenti, seppure indiretti, che mi consentissero di conoscere il mestiere a livello professionale.
La professionalità, nel nostro campo, è vista con sospetto perché premia i più capaci. Per questo nascono ogni giorno nuovi registi un po' naif che credono di poter fare cinema o televisione senza preparazione. Preparazione può anche semplicemente voler dire esercizio, dieci ore al giorno, per anni. Ma il digitale ha aperto false speranze di democratizzazione: ha fatto credere che tutti possano fare questo mestiere perché ormai girare un film può costare anche solo 10.000 euro. Girare un film costa invece anni di impegno ed esperienza. Come accadeva infatti ai nostri più importanti autori, che giovanissimi hanno fatto gavetta per anni sui set o nelle riunioni di sceneggiatura dei grandi senza guadagnare o firmare per molto tempo.

 

[S] Qual è il tuo regista preferito o quello a cui ti ispiri maggiormente?
[FG] Ho sempre fatto riferimento a Stanley Kubrick, ma solo dal punto di vista dell'indipendenza produttiva e delle modalità di set. Ovviamente invano. David Lynch e Jaco Van Dormael mi sembrano i registi più capaci di mostrare una visione personalissima e indipendente di cinema che a me prende molto. Sono i due registi che oggi mi emozionano di più. Forse non è un caso che il primo faccia film sempre con maggiore difficoltà, e il secondo ne abbia fatti, per sua scelta, solo tre (il terzo uscirà nel 2009). Ovviamente, solo per parlare di cinema italiano, ci sono molti altri registi che amo (Petri, Leone, Germi, Leone, Fellini, Pasolini...).

 

[S] E adesso qualche domanda su "Road to L.". Cosa ti ha spinto a girare un film in lingua inglese?
[FG] Nel 2004 ragionammo che un horror, nel mare chiuso del cinema italiano in crisi, non avrebbe avuto presa, e così decidemmo di rischiare e provare ad affrontare anche l'oceano aperto: il mercato internazionale. La storia era comunque perfetta già in partenza per accogliere personaggi non italiani, pur mantenendo l'italianità di contesto, ambientazione, cultura e narrazione. Alla fine la scelta, dovuta inizialmente non a dinamiche creative, ha secondo me regalato alla storia una marcia in più. E' il solito discorso, sempre valido, sulle difficoltà: se riconosciute in quanto tali e considerate opportunità e non problemi aiutano la scrittura e la realizzazione di un'opera d'arte. Ci sono manuali di sceneggiatura che propongono esattamente questo agli scrittori esordienti: mettetevi in difficoltà con l'intreccio e provate ad uscirne, ne verrà fuori qualcosa di inevitabilmente originale.

 

[S] Perchè hai scelto il Polesine come location?
[FG] Il Polesine si è scelto da solo, appena abbiamo deciso di raccontare Lovecraft. Ci pareva l'unica ambientazione italiana che potesse restituire le atmosfere ambigue e angosciose dello scrittore del New England. La sua cultura millenaria ancora non del tutto disintegrata, le modalità di vita isolate, e inoltre una certa persistenza nell'immaginario collettivo come terra cupa, misteriosa (vedi per esempio il film di Avati "La casa dalla finestre che ridono").

 

[S] Molti ritengono che il finale di "Road to L." sia veramente terrorizzante anche se può essere interpretato in molti modi. Puoi dirci la tua personale interpretazione?
[FG] Beh, no. Non è un caso che il finale sia ambiguo. Abbiamo preferito lasciare lo spettatore nel dubbio. D'altronde un finale del genere è parte integrante del meccanismo del film, costruito su un continuo alternarsi di momenti in cui la storia e i personaggi sembrano reali e momenti in cui ne viene svelata l'artificiosità. Un indizio posso darlo però: Lovecraft raccontava storie in cui alcuni pezzi del puzzle della realtà venivano scambiati, e ciò al fine di generare angoscia per l'incapacità di comprendere questa realtà ambigua, che non si lascia cogliere...

 

[S] Durante le riprese è capitato qualche fatto insolito? Raccontaci qualche curiosità "dietro le quinte"...
[FG] Il lavoro con gli attori è stato molto particolare. Io e Roberto, l'altro regista, abbiamo chiesto a tutti di non uscire mai dalla parte, durante le tre settimane di riprese del film, neppure a fine giornata. Questo ha generato in alcuni momenti degli equivoci al di là delle nostre intenzioni. Equivoci spiacevoli a livello personale, ma straordinariamente utili all'atmosfera cupa e malsana del film. In alcune sequenze infatti ciò che avveniva davanti alla telecamera era reale, non scritto. E questo è accaduto più spesso di quanto avessimo previsto. In particolare in merito ai rapporti tra noi, che eravamo persone e personaggi nello stesso tempo, entrambi in balia degli eventi. Come nel caso della scoperta dell'esistenza reale della Confraternita dei Fradei di Loreo e dell'imbarazzo da parte della gente del luogo a parlarne.

 

[S] Quanto "The Blair witch project" ha influenzato la creazione di "Road to L."?
[FG] Durante scrittura e riprese eravamo ossessionati dal fatto che TBWP potesse diventare per la stampa un punto di riferimento del nostro film. Il problema reale era che però, una volta scelta la strada del mockumentary horror (scelta non per emulare TBWP ma perché le stesse dinamiche lovecraftiane la richiedevano), era difficile forzare un allontanamento dallo stile di quel film. Che io reputo, a scanso di equivoci, uno straordinario prodotto dell'industria hollywoodiana, ma che ad una seconda visione perde tutto il suo appeal. Mentre sono abbastanza convinto che "Road to L." acquisti proprio ad una seconda o terza visione.

 

[S] Ultimamente i mockumentary vanno molto di moda, vedi "Rec", "Cloverfield" o l'imminente "Diary of the dead" di Romero. Ce n'è qualcuno che apprezzi in modo particolare?
[FG] Amo "Il cameraman e l'assassino", "Redacted" di De Palma e "Forgotten silver" di Peter Jackson. E "Wild blue yonder" di Herzog. Con "Diary of the dead" (che ho visto al Noir in Festival di Courmayeur nel dicembre scorso) credo che Romero sia riuscito a rinvigorire il meccanismo dello zombie movie - ormai datato - proprio grazie alla scelta del falso documentario. Con il mock ha aderito ad un linguaggio capace di aggiungere un elemento in più alla paura: la sensazione (dichiarata in quanto "solo" sensazione) di realtà.
Noi abbiamo scelto il mockumentary per lo stesso motivo, perché costruisce un patto diverso tra pubblico e film rispetto a quello tradizionale del cinema horror, nel quale ormai si è costretti ad alzare il tiro dell'effettistica e dello splatter, spesso gratuiti. Un patto in cui, sempre sotto il cappello della sospensione dell'incredulità, si offre al pubblico un terreno sul quale anche un'ombra dietro un angolo può fare paura, o un semplice topolino in un tunnel sotterraneo. Un patto insomma, in cui la sensazione di realtà è forte, e non c'è bisogno di alzare il volume degli effetti sonori o far schizzare sangue per spaventare, ma si può creare un nuovo sistema di suspense fondato su una forte immedesimazione nell'intreccio, nei personaggi, negli ambienti e soprattutto nel punto di vista. E' quest'ultimo meccanismo la vera novità del mockumentary horror: chi è dietro alla macchina da presa diventa personaggio a tutti gli effetti e non più testimone invisibile e oggettivo. In questo modo lo stesso spettatore diventa con forza personaggio insieme esterno ed esterno al film. Con effetti a volte stupefacenti.

 

[S] E ora la nota dolente. Cosa ne pensi dell'attuale situazione del cinema fanta/horror italiano? Qual è il suo stato di salute?
[FG] Pessimo, perché ancora non riesce ad essere considerato cinema di primo livello, e dunque ad essere distribuito come merita. La colpa è della stampa cinematografica generalista che non si impegna in un'indagine articolata sul mondo underground, che rivelerebbe molte sorprese. Ma anche dell'ignoranza dei produttori, che non se la sentono di rischiare su un terreno che per loro è "sperimentale" mentre invece è notoriamente, almeno a livello internazionale, vincente al botteghino. E degli autori, che sono incapaci di concepire la possibilità di fare "cinema medio", cioè di buon livello ma non necessariamente autoriale. Purtroppo poi c'è un'amatorialità tecnica troppo diffusa, anche in coloro che dimostrano ottime idee e una visione personale e affascinante. E di quest'ultimo tipo di registi ne stanno nascendo molti.
Rischio l'impopolarità: anche la critica specializzata non fa il suo dovere.
Sento spesso dire da giovani recensori che capolavori come "Shining" non hanno dignità di horror se paragonati all'ultimo "Saw". Francamente è deprimente.

 

[S] Diamo per scontato che ti piaccia Lovecraft, tra tutte le sue opere qual è racconto che preferisci?
[FG] E' molto difficile scegliere, ma direi che amo molto tutto il ciclo di Cthulhu. "Alle montagne della follia" forse è il mio preferito.

 

[S] Ci sono altri scrittori che apprezzi in modo particolare?
[FG] Matheson, Campbell, Silverberg, Dick, Lansdale e Vonnegut. Ovviamente restando solo nell'ambito del fantastico. Ne avrò sicuramente dimenticati molti.

 

[S] Che consigli puoi dare ad un giovane che vuole diventare regista?
[FG] Sbagliare. Perché è l'unico modo per imparare davvero e soprattutto per capire se questo è veramente il mestiere che vuole fare. E siccome l'unico modo per sbagliare è fare, allora fare. Nella mia prima risposta c'è tutto quello che penso al riguardo.

 

[S] Che progetti hai per il futuro?
[FG] Ora sto facendo televisione. E mi hanno offerto la regia per una fiction sul canale Fox di Sky. Sto chiudendo un paio di documentari importanti e cercando di fare il secondo film. Per i primi due anni dopo "Road to L." ho pensato che sarebbe stato facile fare un secondo lungometraggio. Poi mi sono dovuto scontrare a muso duro con la situazione italiana, sia produttiva che distributiva, ma soprattutto culturale. E ho capito che avrei dovuto ridimensionare le mie aspettative. Ovviamente ho nel cassetto diversi progetti di film (thriller, fantastici, horror) di cui solo due possono essere realizzati con un budget ridotto, e dunque a breve termine. Uno di questi è un thriller commerciale, un altro molto personale, anche se sto cercando di trovare una chiave universale che gli assicuri vendibilità. Se dovessi trovarmi nelle condizioni di girare un secondo film con un budget inferiore al primo non mi spaventerei. La voglia di essere di nuovo sul set e provare l'entusiasmo della regia, della direzione degli attori e della consapevolezza che sto di nuovo raccontando per immagini una storia che amo mi toglierebbe qualunque dubbio.

 

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