L'eco dei morti: cartaceo a 4.90 euro

Gli occhi non mentono

Il primo ricordo di Serena da piccola erano gli occhi color castagna del papà. Occhi grandi che si perdevano nei suoi. Occhi che fanno battere forte il cuore a una bambina. L’amore di chi non le faceva mai mancare la pienezza di un abbraccio, una carezza sul viso.
Suo padre, Giuseppe, passava tante ore fuori casa. Serena conosceva bene il motivo per cui poteva vederlo solo di sera, per poco tempo, prima che crollasse sul divano dalla stanchezza. Il lavoro in fabbrica era vitale per il sostentamento della sua modesta famiglia. Era duro ed estenuante, ma estremamente necessario.
Serena, col tempo, si era abituata all’assenza di Giuseppe così come all’odore del mastice che appestava i vestiti da lavoro ogni volta che lui faceva ritorno. Quell’odore chimico e asfissiante penetrava nelle fibre dei tessuti come in quelle dei mobili di legno del loro piccolo appartamento. Era il profumo che ricordava a Serena che suo padre sarebbe tornato per tenerla in braccio, sul divano, finché le palpebre non si abbassavano a coprire quegli occhi stanchi, pesanti, ma colmi d’amore per lei.
Serena aveva sei anni quando, la prima volta, gli occhi marroni di suo padre iniziarono a guardare quelli di un altro bambino.
Quando nacque Martino, Serena provò stupore per il nuovo arrivato. Man a mano che cresceva, quegli occhi marroni che prima erano solo per lei si soffermavano anche su quelli del fratello.
Serena scoprì che gli occhi di suo papà non brillavano più soltanto per lei.
Giuseppe lavorava, tanto, più di prima. Dopo la nascita del fratello, le spese aumentarono così come i doppi turni in fabbrica. Il calore dell’abbraccio di suo padre si raffreddò lentamente come una brace che nessuno si era preso cura di alimentare con nuova legna.
Serena iniziò a odiare l’odore del mastice sui vestiti sporchi da lavoro di Giuseppe. Così, per non sentire più quell’insopportabile tanfo, iniziò ad accendere altri profumi, altre fragranze che potessero solleticare il suo olfatto. Aveva quattordici anni quando le sue papille gustative conobbero il sapore aspro della marijuana. Dalle sue narici uscivano dense nuvole di fumo bianco, come un drago inferocito che accende la miccia nella sua gola, pronto a sputare fuoco su chiunque intralciasse il suo cammino. Serena iniziò a non distinguere più bene gli occhi del padre che si erano persi in mezzo a una fitta nebbia.
Così i tizzoni scintillanti di brace si spensero, diventando grigi e freddi cumuli di cenere.
Vedeva gli occhi del padre lentamente spegnersi e scomparire nel grigiore della vita in fabbrica. Soltanto a tratti spuntavano dalla nebbia come fari accesi, per poi perdersi un attimo dopo.

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Chi è Vezkeí? E' solo un dimenticato idolo sannita? Scritto da Miriam Palombi, apprezzata autrice di storie dell'orrore, Il Varco è un horror superbo che mescola alla perfezione folklore e storia, orrori antichi e moderni, il tutto ambientato in un'Italia misteriosa e poco conosciuta ma non meno spaventosa. Disponibile in ebook e cartaceo illustrato al super prezzo di 4.90 €

Serena aveva sedici anni quando gli occhi di suo padre smisero di cadere nei suoi.
Il piccolo Martino, tornando da scuola pedalando sulla sua bicicletta, fu investito da un autista ubriaco e schiacciato sull’asfalto da cinque assi di ruote pneumatiche del tir che guidava. Il corpo era irriconoscibile, devastato delle quindici tonnellate che gli erano passate sopra. Fu Giuseppe a fare il riconoscimento del figlio in obitorio.
Di lì a qualche mese, suo padre, iniziò ad avere le prime allucinazioni.
Serena, in quell’incidente, non perse soltanto il fratellino, ma anche suo papà.
Non era abituata a vederlo trascorrere ogni giornata in casa. Da che aveva memoria, Giuseppe rientrava soltanto dopo le sette di sera. Ma il lavoro non era più una priorità per quell’uomo distrutto dalla perdita del figlio. I primi mesi di congedo dal lavoro non bastarono a suo padre per risollevarsi dal senso di colpa che lo affliggeva.
Serena passava le giornate nella sua cameretta seduta sul davanzale della finestra a fumare, con il cuore pesante come un macigno e la testa leggera come una piuma. Poteva sentire i deliri e le urla disperate di Giuseppe; le litanie della madre, esausta, che lo consolava.
“Se solo avessi passato meno tempo in quella dannata fabbrica, se solo avessi potuto accompagnare Martino a scuola”. Suo padre era un disco rotto e incise quella frase nella sua testa. I suoi occhi vitrei, riflettevano il suo dolore interiore: a volte assenti, altre volte sgranati, allarmati, inquieti.
Non bastava, a Serena, l’effetto stordente del THC sul suo sistema nervoso per allontanare le urla del padre, sempre più forti, sempre più frequenti.
Le urla angoscianti di Giuseppe si tramutarono in unghie scarnificate sulle porte di legno, poi in capelli strappati a ciocche dalla propria testa.
Martino iniziò ad apparire davanti ai suoi occhi.
Giuseppe delirava e gridava di vedere il figlio correre nel corridoio di casa e giocare con le macchinine, seduto sul pavimento del loro piccolo salotto. «Eccolo lì, guardate! Perché non lo vedete?» Strillava, si nascondeva sotto il tavolo in cucina, terrorizzato.
Le grida di suo padre diventarono più forti di qualsiasi effetto che la marijuana potesse offrirgli.
Serena lanciò il filtro spento dello spinello giù dalla finestra. Quella roba ormai non riusciva più ad anestetizzarla come agli inizi e a distoglierla dal dolore che piano piano iniziò a graffiarla dentro al petto. Il lutto si fece strada dentro di lei scavando un vuoto incolmabile.
La mamma di Serena fu assunta nella fabbrica dove, prima, era Giuseppe a recarsi ogni giorno. Fu lei a caricarsi tutto il peso economico della famiglia sulle spalle. Non poteva più occuparsi di sostenere il lutto e i deliri del marito.
Così, Serena, uscì dalla sua cameretta per ritrovare quell’abbraccio perduto da tanto tempo. Capì che toccava a lei.
Giuseppe aveva gli occhi fuori dalle orbite. Trasudavano orrore e paranoia. «Il fantasma di Martino, è qui, non mi da pace, mi perseguita! È arrabbiato con me perché non l’ho accompagnato a scuola.»
Serena lo abbracciava, cercava di donargli un po' di serenità. «Papà, calmati, ti prego.» L’odore del mastice era svanito, aveva lasciato il posto al sapore salato delle lacrime.
Serena e Giuseppe piansero, vicini, ma il loro sguardo non si fondeva più insieme. Lei lo cercava, disperatamente, ma gli occhi di Giuseppe avevano cambiato aspetto e colore, sembravano ricoperti da una patina grigia.
Accarezzava la testa del padre ridotta a una superficie di cute smembrata. «Non c’è nessun fantasma.» Premeva con dolcezza le mani sulle guance di Giuseppe. «Guarda, papà, ci sono io, sei al sicuro»
Quegli occhi che un tempo donavano tutto l’amore che un padre potesse offrire alla sua bambina, erano evaporati nelle allucinazioni e nella disperazione.

Serena aveva diciotto anni quando gli occhi di suo padre smisero di incontrare, per sempre, i suoi. Era il giorno del suo diploma, seduta accanto ai suoi compagni di classe sulle scale della scuola. Erano in posa, il fotografo scattava loro delle foto ricordo, i genitori tutti riunti alle spalle dei figli.
Giuseppe indossava un berretto in testa per nascondere i capelli che si era strappato. Glielo chiese Serena di indossarlo, avrebbe voluto un bel ricordo di quella giornata di festa.
La moglie lo sorreggeva sotto braccio. Era esausto, distratto, lo sguardo meditabondo.
Il volto di Giuseppe non era rivolto verso l’obiettivo, ma da un’altra parte, verso gli alberi nel cortile.
Serena alzò lo sguardo verso i suoi genitori e si chiese cosa stessero osservando gli occhi persi di suo padre, quando, lo vide correre verso l’albero vicino a loro, con le mani protese in avanti. Sbatté la testa sul tronco e il berretto cadde a terra. Iniziò a grattarsi con veemenza la faccia sulla corteccia.
Serena e la madre corsero da lui, sotto gli occhi attoniti di tutti i presenti.
Giuseppe era una maschera di sangue. Strati di pelle erano attaccati alla corteccia; il naso, le guance e la bocca erano smembrate. Urlava, in preda al delirio.
Quando la sua mano e quella della madre si posarono sulle spalle di Giuseppe, lui si accasciò a terra, lamentando sottovoce una malinconica cantilena. «Se il bambino non vuoi più guardare, gli occhi ti devi strappare.»
Serena si lasciò abbandonare all’abbraccio della mamma, mentre l’ambulanza portava via il padre. Un tarlo si introdusse nella sua testa: cosa stava guardando, davvero, suo padre?

Serena aveva ventitré anni quando gli occhi di suo padre non poterono, mai più, fondersi nei suoi.
Ogni domenica andava a fargli visita all’istituto psichiatrico. Le condizioni di Giuseppe si aggravarono, i medici gli diagnosticarono schizofrenia con visioni allucinatorie, disturbo delirante, stravolgimento della realtà.
Giuseppe si faceva trovare sempre seduto dietro al solito tavolo verde, il primo di fianco all’ingresso della sala visite. I suoi occhi erano mutati in due sfere patinate da uno strato di cera. Erano completamente assenti a causa dei farmaci e dei sedativi che gli venivano continuamente amministrati.
Serena scese dalla macchina e corse, sotto una pioggia battente, nel vialetto dell’ospedale. Pioveva a dirotto ma non abbastanza per farla rinunciare ad andarlo a trovare. Ma soprattutto, da esortarla a porgli una domanda che da troppo tempo la logorava.
Il suo eskimo verde militare era zuppo di pioggia, una mano copriva il taschino della giacca. Il contenuto non si sarebbe dovuto bagnare per nessuna ragione al mondo.
Si asciugò le suole degli anfibi neri sullo zerbino e varcò la porta d’ingresso della struttura, passandosi una mano tra i capelli bagnati. Un infermiere la accompagnò nella sala visite. Suo papà era lì, come sempre, seduto allo stesso posto, i palmi delle mani appoggiate al tavolino, le guance cadenti, la bocca semi aperta e gli occhi fissi nel nulla.
Si sedette di fronte a lui.
«Ciao papà, sono bagnata fradicia, non farci caso.» Giuseppe continuava a fissare il tavolo. Serena era certa che non si fosse reso conto del suo arrivo. «Ormai è da tanto che non mi guardi e da un po' che nemmeno mi parli, ma ci ho fatto l’abitudine, sai?» Non poteva biasimarlo, gli psicofarmaci stavano annientando il suo adorato papà ridotto in uno stato catatonico.
Aprì il taschino della giacca, tirò fuori un piccolo block-notes, una matita e una fotografia e ripose tutto in modo ordinato sul tavolo. La sua mano fece scivolare tutto quanto sotto gli occhi di cera del padre.
«Ho bisogno di chiederti una cosa importante, papà. So che per te è tanto quello che sto per mostrarti. Ma ho bisogno di sapere, non ci dormo più la notte. Ho bisogno che tu guardi questa foto, per me.»
Con una lentezza esasperata, Giuseppe raccolse la fotografia dal tavolo. A Serena le sembrò che guardasse un foglio interamente bianco. «Te lo ricordi il giorno del mio diploma, papà?» Serena aveva gli occhi lucidi, colmi di lacrime.
Suo padre guardava la foto con lo sguardo piatto, poi, finalmente, alzò lo sguardo su di lei. I suoi occhi sembrarono liquefarsi.
Il cuore iniziò a batterle forte. La stava di nuovo guardando come quando rientrava a casa dopo il lavoro? Per un attimo le sembrò di risentire l’odore del mastice che permeava i vestiti di suo padre.
«Papà, ho bisogno di sapere. Chi c’era dietro l’albero, quel giorno?»
Giuseppe scosse il capo.
«Lo so che preferisci non parlare. Ho pensato anche a questo, d’altronde sono tua figlia.» Gli sorrise, sapendo che non ci avrebbe comunque fatto caso e gli avvicinò block-notes e matita. «Potresti scrivermelo? Ti chiedo solo questo, papà, nient’altro.»
Giuseppe lasciò cadere la fotografia a terra, strappò un foglio e impugnò carta e matita.
Serena si abbassò e si infilò sotto il tavolo per raccogliere la fotografia caduta ai piedi del padre.
Un urlo straziante rimbombò nella sala visite. Gocce di sangue le caddero sulle mani e sulla foto. Si sollevò di scatto.
Si era infilato la matita in un occhio, ma non gridava, bisbigliava. «Se il bambino non vuoi più guardare, gli occhi ti devi strappare.» Era talmente sedato che parve non sentire neanche il dolore.
Gli infermieri entrarono di corsa in sala visite, sedarono suo padre con una siringa e lo portarono via con la forza.
Serena, era impietrita, sotto shock, con la fotografia tra le mani. Urlò, avrebbe voluto distruggere il mondo intero. Rimase sola nella stanza. Strofinò la manica della giacca sulla foto per ripulire il sangue. Apparve anche a lei, Martino che giocava a nascondino, tra gli alberi.
Sospirò. In fondo, Serena lo aveva sempre saputo, perché gli occhi non mentono mai.

Manuel Marinari



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