Fermo in colonna, coi tergicristalli al massimo, Filippo si chiese che cazzo ci faceva lì. Avrebbe dovuto iscriversi in palestra, come facevano i suoi colleghi. Bruciare qualche chilo, invece di perdere tempo nel traffico.
Ingranò la prima, fece pochi metri e si fermò. Di nuovo.
Bar Indios... Non aveva mai notato quell'insegna prima. Parcheggiò ed entrò nel locale.
C'erano otto o nove clienti – si voltarono tutti. Filippo si avvicinò al bancone. Pareti e soffitto erano rivestiti di legno, un mascherone in pelle di qualche cultura mesoamericana svettava tra le bottiglie.
Faceva caldo. Filippo si levò il pullover, ma la camicia si sollevò di qualche centimetro; se la rimise nei pantaloni, nascondendo la pancia. Una signora sulla sessantina lo guardò male, con un filo di bava alla bocca.
«Che ti servo?»
La barista aveva sui 25 anni: viso pulito, frangetta sulla fronte... La classica universitaria costretta ad arrotondare in un bar di paese. Sorseggiavano tutti un intruglio rossastro - Bloody Mary, forse.
«Una birra, ma... si può anche mangiare qui?»
«La cucina apre proprio ora» disse strizzandogli l'occhio.
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Filippo sperò che almeno lei non avesse visto la sua ciccia. La barista gli porse un menu rivestito in pelle – era pesante, come la carta dei vini di un ristorante stellato. A quel pensiero, Filippo sorrise.
Voltò la copertina e si trovò davanti... uno specchio. Si guardò intorno, doveva essere uno scherzo. I clienti si erano fatti vicini, avevano gli occhi sgranati e la lingua fuori dai denti.
«Ho... dimenticato il cellulare in auto» disse indietreggiando.
Arrivò alla porta – in due lo afferrarono per le spalle e lo sbatterono a terra. La vecchia gli montò sul petto e gli leccò un orecchio, ansimando.
«Tranquilli, ce n'è per tutti» disse la barista da lontano. «Portatemelo in cucina.»
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