Schiavo di casa

Racconto per il concorso "300 Parole Per Un Incubo", 2020 - edizione 19

«È ora, vallo a chiamare», gli avevano detto.
In quanto assistente personale, toccava a lui no? Un compito poco invidiato, per il quale tuttavia era profumatamente ricompensato.
I colleghi, in effetti, non avevano tutti i torti: mancava qualche minuto e la sala stampa era gremita.
L’assistente prese il coraggio a due mani e imboccò il corridoio.
Non erano neanche più le urla, a scoraggiarlo. Gli strilli che rimbombavano sul soffitto facevano ormai parte dell’arredamento, al pari della moquette o degli antichi ritratti alle pareti. E non era nemmeno il macello che il principale si lasciava dietro dopo i suoi festini (grazie al cielo, delle pulizie era incaricato qualcun altro). A fargli tremare le ginocchia, a mozzargli il fiato, era proprio l’idea d’interromperlo durante il suo passatempo preferito, non importa quanto valida potesse essere la ragione. Ambasciator, si sa, non porta pena, ma vallo a spiegare a quegli occhiacci vacui, mentre ti scrutano dentro e rimestano tra le tue paure.
Si fermò davanti alla porta dello studio. Un grido si era appena spento, per lasciare spazio a un rantolo che si fuse in un indefinibile gorgoglio.
Prima di bussare, inspirò a fondo. Sperò che almeno evitasse di aprirgli nudo.

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Due secondi di silenzio e l’anta cigolò sui cardini. Lui comparve nello spiraglio: non solo senza maschera, ma proprio senza tuta. Chiazze di sangue luccicavano sulle squame, e quello che sembrava un lembo di carne penzolava dalla cresta di spine che gli correva lungo il mento.
Il delegato intravide a terra un piede senza proprietario. "Se non altro", si consolò, "pare quello di un adulto."
«I giornalisti sono arrivati.»
Visto che l’altro non reagiva, precisò con un filo di voce: «Il discorso alla nazione, ricorda? La stanno aspettando, signor Presidente».
E veda di rivestirsi, per l’amor di Dio.

Davide Staffiero



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