La terza ora

La città vecchia sorrideva isterica, con denti di calcestruzzo spaccato. Profonde crepe segnavano in più punti quelle palazzine pericolanti che ne componevano il sorriso storto; il tempo aveva solcato la roccia con la stessa mano con cui avrebbe tracciato le rughe sulla pelle di un’anziana signora. La città vecchia era una signora dal sorriso osceno e dal capo grigio, sporcato dalla cenere degli sporadici incendi causati dalle stufe di fortuna di qualche poveraccio. Le sue vene, un groppo di viuzze che conducevano al cuore dall’antico centro, la piazza del duomo, avevano la capacità di rigenerarsi continuamente, pur rimanendo in apparenza deserte e aride di vita per lunghi periodi. Sebbene nel buio di quei vicoli, nel freddo siderale della notte, qualcosa si muovesse di continuo; qualcosa che impediva a quell’angolo polveroso di mondo di sprofondare una volta per tutte nel ventre della Terra. E se ciò non era ancora accaduto, era per merito degli operosi abitanti di quelle case diroccate, di chi aveva scelto di vivere nel sottosuolo, e di quegli altri che avevano trovato un riparo nel buio.
Al di fuori di quelle mura sgretolate ci si interessava ben poco dei fatti della città vecchia, e nessuno, in centinaia di anni, si era mai chiesto come quell’ammasso di case bruciate e polvere ritornasse in vita, di tanto in tanto; ridiventasse il centro del mondo, il cuore palpitante dell’intero comune.
La città vive. Le varie amministrazioni locali che si alternavano negli anni, periodicamente, rispolveravano questo slogan per guidare delle campagne di recupero del centro storico. Quella frase, come il canto delle sirene, attirava uomini e capitali. Di solito ciò avveniva in seguito all’elezione di un primo cittadino illuminato, spinto da certi ambienti sotterranei della città vecchia. All’apparenza un rappresentate cittadino come tanti; in verità, un esecutore guidato dalle voci silenziose di chi lì lo aveva messo. A pochi mesi dalla nomina, il primo cittadino stanziava una serie di misure e di aiuti economici destinati a chiunque avesse voluto avviare un’attività in quella zona della città. In questo modo il centro storico avrebbe trovato il suo sangue fresco: una consuetudine quasi rituale, ripetuta per centinaia di anni, innumerevoli volte.
Così quegli angusti budelli ricominciavano pian piano a pulsare, a illuminarsi anche di notte. Viuzze normalmente inospitali, ripide, coperte da pavé consunto e scivoloso davano inizio a una sorta di metamorfosi. Sembrava che addirittura le pietre avessero una intelligenza propria: scricchiolavano, ruotavano in maniera impercettibile fino a compattarsi, così che il piede del viandante non avesse avuto da faticare molto per tenere l’equilibrio. Era come se la città vecchia volesse rendersi più attraente, come una donna che, ormai avanti negli anni, si imbelletti per apparire ancora piacente.
Nei fine settimana viveva il suo massimo splendore. Si faceva luminosa, profumata. Vibrava di vita fino a tarda notte, per le frotte di persone che affollavano le sue stradine non più disagevoli. Giovani e meno giovani ne percorrevano le vene pietrose fino a raggiungere la piazza del duomo, dove ad attenderli c’erano schiere di locali ancora odorosi di vernice fresca, pronti ad accoglierli e inebriarli di alchimie alcoliche a buon mercato. Ragazze e ragazzi, uomini e donne restavano lì, a volte fino all’alba, a donare giovinezza a quel pezzo di mondo ritrovato che, un week-end dopo l’altro, sembrava ricambiare offrendo il suo volto migliore.
Fuori dai coni di luce arancione dei lampioni comunali, qualcosa si muoveva ancora. Non aveva mai smesso di farlo, ma ora si agitava per la smania, pervasa da una rinnovata forza, da un pieno vigore.
Capitava non di rado che qualcuno di quei viveur del sabato sera, tra un drink e l’altro, venisse sfiorato della carezza gelida dell’incomprensibile. A quel punto la realtà vacillava, ma solo per una manciata di secondi. Bastava davvero poco per scoprire che, in verità, quel posto non era mai cambiato. Bastava solo spingersi di poco oltre quella cortina di luci abbaglianti e di colori vivaci, magari soltanto sollevare la testa, rubare con gli occhi qualche scampolo di vita all’interno di quelle case che si raccoglievano attorno alla piazza del duomo. Pochi di loro, o forse nessuno di loro, sarebbero riusciti a descrivere con chiarezza ciò che capitava di vedere dietro a certe finestre. Donne dai volti punteggiati di piccoli occhi di liquirizia passeggiavano a testa in giù sui soffitti rischiarati dall’illuminazione stradale, fregandosi le mani setolose come zampe di mosca. Oppure quegli uomini in maniche di camicia, le cui gambe erano grovigli di flaccidi tentacoli diafani dai riflessi prugna. E ancora, figure umane alte poco più di un metro con coriacee mascelle di mantide, sui cui corpi cresceva irto e selvatico il vello dei cinghiali. Tali creature erano così assurde nelle forme, così bizzarre nei colori, che spesso chi le scorgeva, in una fugace apparizione, non era in grado di descriverle; più spesso era indotto a pensare di aver immaginato tutto.
Trascorsi tre inverni i due mondi si incontravano, costretti a guardarsi negli occhi. Nei week-end il fenomeno sembrava essere più frequente. La domenica mattina, in genere, iniziava a diffondersi la notizia di uno o più corpi esangui, ritrovati in questa o in quella viuzza della città vecchia. Di solito i cadaveri presentavano delle inspiegabili deformazioni degli arti. Altre volte si raccontava di giovani dagli occhi spiritati che parlavano di strane storie di insetti antropomorfi o di rivoltanti creature marine dall’aspetto umano. Di solito le voci si rincorrevano per qualche mese. Iniziava sempre allo stesso modo. Poi l’emorragia: le stradine di pavé iniziavano a svuotarsi diventando sempre più anemiche. Il buio diventava ancora più nero, in modo graduale, spegnendosi nel silenzio una settimana dopo l’altra, riportando la città vecchia al suo stato di desolazione iniziale. Arroccata nella densa oscurità, chiusa nel solito silenzio blindato, col suo sorriso isterico fatto di denti di calcestruzzo logoro.

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A quel punto erano i commercianti a rappresentare, per la città vecchia, un pasto sicuro; gli ultimi ad andar via, i bocconi dal passo più lento, intralciati dalle catene di attività morenti e di una burocrazia più viva che mai. Il loro era sangue già marcio ma comunque utile al cuore avvizzito di quel vecchio animale di nuovo in punto di morte. A loro toccava la sorte peggiore: l’inglobamento. Era sempre stato così, dall’epoca lontana in cui i mercanti si ritrovavano lì in occasione della fiera annuale del santo patrono. Ora come allora nessuno di loro, giunto da quelle parti per affari, conosceva il destino che quel malevolo buco di pietra serbava. Di solito le mutazioni avvenivano di notte, in quella che alcuni tra i più vecchi abitanti in città chiamavano “la terza ora”, quando giungeva il momento di tirare giù le saracinesche e di tornare a casa. Agli inglobati li attendeva il più basso gradino di quella società di ombre, di cui nessuno che vivesse al di fuori di quelle mura doveva essere a conoscenza. I corpi cambiavano, assumendo forme stravaganti e nuove dimensioni; le menti cambiavano. La carne riduceva di molto la sua massa, assumendo colore e consistenza inconcepibili. I corpi si schiacciavano al suolo e definivano la propria forma in dischi pulsanti dalla pelle molto sottile, dall’aspetto fragile, rigata da sottilissime vene di un rosso acceso. A una prima occhiata ricordavano delle razze, con quei corpi così piatti e flessuosi, e con quelle bocche triangolari che guardavano per terra. Le loro zampette porpora che ticchettavano sul pavé, di nuovo freddo e sconnesso, le rendevano piuttosto rapide negli spostamenti e adatte a vivere sulla terra emersa.
Accadeva non di rado che nelle prime ore dalla trasformazione, alcuni di loro fossero ancora in grado di parlare. Sovente capitava al turista smarrito di incontrare questi bizzarri esseri dalle vocine stridule, affilate come pugnali di ghiaccio pronti a squarciare le fibre del cervello di qualche malcapitato. In genere supplicavano di essere schiacciati, pregavano perché qualcuno rompesse le loro catene una volta per tutte.
“Schiacciami, schiacciami! Per favore, schiacciami!”, dicevano , intonando una straziante cantilena, lanciati in frenetici girotondi intorno ai piedi del passante ripugnato. Pochi resistevano alla tentazione di fuggire, alla vista di quegli esseri penosi. Altri, presi da una strana ebbrezza di onnipotenza, si facevano prendere per mano da un impulso di distruzione senza cervello, come se donare la morte fosse il loro unico scopo. “Schiacciami o diventerò ragno. Schiacciami adesso!” dicevano le piccole bocche triangolari. E poi l’impeto: suole di scarpe prendevano a pestare di gran lena, riempiendo la notte di suoni mollicci e vischiosi, di flebili scricchiolii come di ossa di passero triturate da fauci muscolose.
Una volta esaurita la spinta di quell’insana estasi, una volta che in terra non restavano che minuscoli frammenti di osso e poltiglia tiepida, il viandante smarrito tornava in sé, riprendeva la marcia con passo più svelto, ansioso di lasciarsi alle spalle la città vecchia; ansioso di far ritorno a casa, tra mura famigliari, con le suole ancora sporche e con in bocca qualcosa di pittoresco da raccontare.

Marco Sorbara



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