Lessi sul giornale il momento della mia dipartita, prevista per oggi a
mezzogiorno, in piazza Oberdan: infarto.
Non mancarono le telefonate di amici e parenti, anche loro informati della
notizia. Il mio capo disse di non preoccuparmi del lavoro, di non sprecare
nemmeno un istante per fare ciò che volevo.
Peccato che gli squadristi della morte, a poche ore dalla pubblicazione, mi
avevano già preceduto. Avrei voluto levarmi qualche sassolino, chessò, far
esplodere il Palazzo delle Finanze. Oppure avvelenare l’aria della piazza con
l’iprite. Insomma, costringere la società a riscattarmi in un modo o nell’altro.
Ricattarla, ecco, perché nel 2018 un colpo al cuore non dovrebbe significare per
forza la fine di un uomo.
Niente da fare. Rinchiuso in una camera d’albergo a due stelle, sulla scrivania
sbilenca, penso all’inevitabile. Dietro la porta d’ingresso, due uomini
piantonano la stanza: credono che possa scappare, fare sciocchezze, terrorizzare
i “vivi”. Dalla finestra vedo la piazza, il mio patibolo. I ghisa hanno già
provveduto a perimetrare l’area con il nastro bianco e rosso e il logo del
Comune meneghino. Al di là della recinzione, i soliti manifestanti con una
scritta nera: “Basta morti programmate!”
In mezzo a tutto: la sedia, con la milizia pronta a costringermi a fare cose
che non voglio: camminare in riga, sedermi, farmi legare le mani, aspettare.
Vorrei fumare ancora una di quelle speciali, legalizzate dallo Stato per
toglierti il sonno. Un terzo della mia vita passata a dormire, con le speciali
invece si vive tutta la giornata; si lavora tutta la giornata e si muore alla
grande, quando lo dicono i notiziari bastardi.
I miei sogni, non li ho mai ricordati, non mi sono mai serviti a niente.
Eppure, ad ogni speciale, una nuvoletta di fumo prendeva la forma di una bella
donna, di un viaggio, di un oscuro desiderio.
“Un ultimo desiderio?” disse il capitano.
“Vorrei fumare” risposi.
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Sorpreso di essere già seduto su quella maledetta sedia, aspettavo impaziente
la mia ora.
“Dategliene una, stronzi!” gridò un manifestante. “Lo avete portato fino a qui.
Dategliene un’altra! Ne ha diritto!”
Improvvisamente, per un momento, il perimetro sembrò cedere alla furia dei
manifestanti. “Bastardi!” gridavano in coro “Assassini!”.
Il capo dei vigili, allora, dal capannello dei dimostranti si diresse verso
il capitano.
“Signore”, disse il ghisa facendo vedere nella mano una speciale. “La offrono
loro”.
Il capitano guardò circospetto l’intera scena. Cosa sarebbe potuto capitare? una
nuvoletta con qualche immagine sconcia, forse?
“Dategliela! Dategliela! Dategliela!”, le grida.
Il ghisa rimase in silenzio, conscio che a mezzogiorno mancavano solo tre
minuti, e che dopo la mia morte la protesta sarebbe sfociata in battaglia.
I suoi occhi, come dimenticarli: vuoti e neri come il l’abisso di un oceano
senza fondo. “Tieni” disse il capitano mettendomi la speciale in bocca. Il
vigile invece fece il resto, accendendomela.
Un minuto alla fine. La nuvoletta saliva in cielo prendendo forma. Erano ombre, erano bocche. A centinaia, bocche sottili e denti affilati come i rasoi del più oscuro dei desideri, lì avverato dopo l’infarto. E più nessuno ad aiutarmi.
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