Lo stomaco borbotta. Apro gli occhi. Borbotta ancora. Il passato di verdura di ieri sera, evidentemente, è stato abbondantemente digerito. Ci vorrebbe una di quelle merendine al cacao che stanno nel cassetto della cucina. Mi stropiccio gli occhi. Un rumore. Quasi impercettibile. Poi silenzio. Totale. Oltre la porta. Quella porta scura che divide la mia cameretta dal corridoio. Che è sempre stata lì, che ho aperto centinaia di volte per quanto i miei otto anni di vita mi permettano di ricordare. Al di là c’è il solito corridoio, con i soliti quadri dipinti dalla mamma, la cassapanca dove ritiro i miei palloni e l’attaccapanni con i giacconi invernali. Niente altro. Eppure questa notte, non so perché, sento che qualcosa si nasconde in quel corridoio. La sveglia indica le due e quarantacinque. Ancora troppe ore per aspettare che la mamma venga a chiamarmi per colaz...
Si è mossa. Lievemente. La porta ha fatto un sordo rumore. Ma lo fa spesso. Basta un minimo soffio d’aria e si muove sui cardini. Non c’è da aver paura. Forse.
In ginocchio sul materasso continuo a fissarla, illuminata dalla fioca luce del quarto di luna.
Ma io non sono uno che ha paura. Non lo sono mai stato. Mi sono tolto da solo la spina della rosa dal dito. Senza piangere. E usciva sangue. Faceva male, ma non ho avuto paura.
Nemmeno quella volta in cui Matteo mi ha tirato un petardo tra i piedi. Ha fatto un fracasso terribile. Nemmeno lì ho avuto paura, eppure la ragazzina a fianco a me ha gridato in modo isterico.
Una volta, un po’ di paura l’ho avuta. Quando la mamma non arrivava a prendermi dopo l’allenamento di calcio. Ero solo, al freddo, fuori dal campo. E lei non c’era. Poi ho visto le luci di un’auto. Ma non era la sua. E un’altra e un’altra ancora. E quando poi è arrivata, le ho trattenute a stento, le lacrime.
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Eppure adesso la paura l’ho, eccome. Ma non c’è nessun motivo. Nessun rumore, nessun odore, niente luci. Niente. Ma allora perché fisso la porta? Perché non la apro per vedere che, lì fuori, non c’è nient’altro che la cassapanca, alcuni vecchi giacconi e dei quadri di fiori?
Non è perché indosso un pigiamino di Spongebob che sono meno coraggioso. Posso farlo. Devo aprire la porta, quella porta di legno scuro. Scendo dal letto, senza fare rumore e mi avvicino. E un po’ d’aria fredda arriva da sotto. La sento sui piedi scalzi. Là fuori non c’è nulla. Credo. Spero. Le mani prendono a tremare leggermente, sono gelate e ho sonno. Adesso basta. C’è solo un modo per potere tornare a dormire. Ho deciso: adesso conto fino a dieci poi apro la porta.
Uno.
Due...
La maniglia cede, finalmente la apro, ho atteso fin troppo. In fondo è stato più facile di quanto pensassi. L’anta in legno scuro comincia a muoversi. Passato il freddo, la fame ricomincia a farsi sentire. È ora di fare un bello spuntino notturno. Dall’interno della stanza sento una parola: “Sette...”.
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