1. La vita è un lento suicidio a modo tuo
L’aria era irrespirabile, pesante come una mano armata di cloroformio che
preme sul muso attonito di un passante. Di tanto in tanto il cielo oppresso dal
grigiore d’un estate malata sputacchiava qualche goccia di pioggia, allora
l’acqua si mescolava alla polvere, generando un olezzo di tetra siccità.
Naturalmente le strade asfaltate della città erano deserte, una plaga delle
illusioni infrante che si estendeva a perdita d’occhio.
Il respiro era timido, asfissiante, non si addiceva a quello di un eroe; lo
sapeva bene il tapiro, scelto suo malgrado da una voce incombente che non aveva
neanche avuto l’educazione di mostrargli il suo fautore.
“Non voglio andare!” Disse il Tapiro. “Non credo di averne le forze!”
“Invece devi! Dovrai pur nutrirti!” Disse la voce.
Tutto era silente solitudine, l’aria pesante attanagliava la testa del tapiro,
era come se le vene del cervello poco avvezzo al pensiero stessero per esplodere
facendosi strada attraverso i bulbi oculari, le pareti del cranio resistevano
invece alla veemente pressione interna, provocando lancinanti fitte di dolore.
Parlare attraverso la bocca anestetizzata e riarsa dalla sete mortale era cosa
quasi impensabile, ma il tapiro lo fece, in un languido sussurro, mosso da una
macabra disperazione.
“Nutrirmi? Non ne ho le forze ti ho detto, non voglio!”
“Morirai allora.”
La voce era appollaiata sugli occhietti socchiusi e doloranti del tapiro.
“Va bene, lo accetto, così sia, morirò volentieri, non ho nessuna intenzione di
incamminarmi verso nessun cazzo di castello al fine di nutrirmi, comunque vada
mi ucciderà prima questo deserto infuocato.”
2. Tutto osare e nulla temere
Per un breve istante regnò il silenzio, il sangue pulsava nei timpani del
tapiro coprendo ogni esterno sentore. Improvvisamente una mano inguantata
sollevò l’ansimante animale, i piccoli occhi si dischiusero lentamente sfuggendo
al sonno fatale dell’agonia.
Una maschera da scherma nera copriva un volto impossibile da scrutare, era già
difficile respirare in quella plaga desolata, figurarsi come doveva essere farlo
attraverso i minuscoli spiragli della rete scurissima su cui era dipinta una
scarlatta Croce di Malta.
“Con me c’era un seguace di Hans Talhoffer!”
La voce dello schermidore non era certo quella di poco prima, che ora taceva
come a non volersi svelare.
“Il poveraccio è morto sotto il peso della sua arrugginita armatura, fa troppo
caldo qui per un seguace di Talhoffer, ovvio!”
Il tapiro capiva a malapena le parole criptiche del masochista innanzi a lui.
“Sarai tu il mio nuovo compagno di viaggio, verrai con me al Castello del Dolore
dove recupererò il mio onore perduto!”
“Ma io non voglio, l’ho già detto alla voce di prima, adesso ti ci metti anche
tu? Non conosco neanche le vostre facce!”
Le proteste sembrarono non essere ascoltate, il tapiro finì in una grossa borsa
di pelle di gufo e si ritrovò sul sedile di una potente, aggressiva automobile
dalle linee ultramoderne.
“Sorpreso? Pensavi che andassimo a piedi? Non temere, al Castello del Dolore i
soldi non mancano, dovrai però barattarli col tuo onore, quotidianamente, è così
che mi hanno fottuto.”
“Io non voglio una potente macchina aggressiva, tantomeno una maschera da
scherma nera, sono un tapiro io, non so se si vede, vorrei solo starmene
tranquillo!”
“Tu dunque non hai onore da vendere o barattare?”
Era troppo tardi, una frotta di zombie incedeva all’orizzonte, presto la folla affamata circondò la nera vettura che scintillava al sole.
“Ci condurranno bendati al castello, io ci sono già stato, risucchieranno ogni tua fibra, in compenso però potrai bere e mangiare, magari ti avanzerà pure qualcosa, in fondo la vita è un lento suicidio amico mio, camminiamo tutti inesorabilmente verso la morte come il seguace di Talhoffer che è schiattato poco fa.”
Il tapiro era affranto, non capiva perché quel folle spadaccino lo avesse condotto lì dove voleva la voce persuasiva a cui s’era opposto. Che differenza c’era tra il morire nel posto in cui era prima o in quell’austero castello delle angosce?
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3. Il Castello del Dolore
Fu tutto molto semplice e veloce:
Immatricolazione, assegnamento mansione e obliterazione.
Col tapiro c’erano un bradipo, un’antilope, un grosso orso orbo, due porci e un
volpone.
Dovevano lavorare, continuamente, fino allo sfinimento, per farlo venivano
imbottiti di droghe e frastornati mediante inibitori auditivi, spettri
subliminali che fottevano a sangue il cervello.
Fortunatamente lo schermidore fu immediatamente riconosciuto, risparmiando al
tapiro ulteriori fatiche.
“Tu sei quello che cerca il suo onore!” Disse il volpone.
“Chiama gli zombie, chiama i mannari!” Fece eco l’antilope.
“A che serve una vacanza col tempo che c’è fuori? Io adoro questo posto!”
Aggiunse l’orso orbo in piena, schiumante crisi produttiva.
Arrivarono gli zombie armati di grattugia, le usavano soprattutto sulle tempie
per impedirti di pensare.
“Sarò breve, altrimenti mi rivelerò impubblicabile, è ignobile ciò che accade in
questo luogo, non ho il tempo che aveva Kafka per il suo Castello!” Disse lo
schermidore tuffandosi tra i non morti.
“Questa è una spada a una mano e questo un brocchiere!” E via una testa, via una
mascella.
“Questa invece è una mano sinistra rinascimentale!” Via pezzi di carotide e
velocissimi colpi di punta.
Non fuoriusciva sangue da quei corpi, solo sabbia, polvere e sudore legnoso.
Lo spadaccino se la cavava molto bene:
“Dov’è nascosto il mio onore?”
“Ma qui avrai gloria!” Disse uno dei maiali “Nella produzione massima sarai
premiato settimana dopo settimana, a cosa ti serve l’onore? Noi abbiamo il
plauso sempiterno di chi lavora sodo e provvede a se stesso.”
Una daga lanciata si conficcò in mezzo agli occhi porcini.
“Lavora, lavora e stai zitto!” borbottava il bradipo.
“Lavora, lavora, lavora, lavora, non giunge l’aurora, lo senti il ticchettio
della morte? Lavora, lavora, lavora che è ora, vedi lontano lo spettro del
mare?”
Tutti gli zombie erano a terra, il tapiro si strinse forte alle caviglie dello
spadaccino, giunsero i mannari, si udivano di lontano i ringhi soffocati dalla
bava omicida, il digrignare delle zanne ingiallite dai cadaveri masticati, il
suono spavaldo degli artigli che cozzavano tra loro.
“Resta in piedi schermidore, voglio andare via di qui!” Sussurrò il tapiro.
I mannari però erano troppo forti, travolsero l’uomo mascherato, lo trascinarono
in un turbine di percosse, ora il sangue scorreva imbrattando i muri ed
apparteneva tutto allo spadaccino.
“Non sei un eroe! Non sei niente! Niente!”
Le ossa vennero spezzate con cupa brutalità, ormai il corpo senza vita pareva
quello di un pupazzo di pezza, venne issato e gettato in un complesso
macchinario, le carni e lo scheletro triturati divennero un frigobar.
4. Rassegnazione e disincanto
Ancora il tapiro udiva il suono scrocchiante della infernale macellazione, le
spalle dello spadaccino triturate, il bacino spremuto come fosse un pompelmo
croccante.
Un ragno enorme poi, rosso come il rubino, discese lentamente dal soffitto.
“Questo è il mio castello, specchio del mio essere, e qui si fa come dico io!
Non temere a te non accadrà ciò che è successo allo schermidore, tu sei un
tapiro, mansueto per natura e fortunatamente non hai una minima idea di cosa sia
l’onore.”
Il ragno non ammise repliche, risalì la tela svanendo nel soffitto.
L’orso orbo diede una pacca sulla spalla al tapiro sconsolato:
“Stai tranquillo, qui si sta bene, meglio che fuori, almeno qui sarai nutrito e
potrai comprarti scarpe e occhiali da sole.”
Così il tapiro venne introdotto alla sua nuova vita, mentre guardava con occhi
assenti verso la finestra minuscola incrostata dallo sporco di secoli e secoli.
Era ancora giorno, grigio ma pur sempre illuminato, non sapeva il tapiro, che
nel Castello del Dolore erano sempre le nove, le nove di un eterno, nefasto
mattino.
Il tapiro lacrimò lentamente pensando:
“Che cazzo se ne fa un orso orbo di scarpe e occhiali da sole?”
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