Quando mi svegliai, riempiva già la cornice della porta. Le luci intermittenti dell’albero proiettavano la sua sagoma sul mio letto.
- È arrivato! - gridai.
Sentii papà sprangare la porta in fondo al corridoio. La mamma piangeva.
L’uomo-pancia spalancò la bocca, mostrandomi file di denti, concentrici come quelli di una lampreda.
Come avevo potuto non sentirlo arrivare? Con una fitta pensai ai miei genitori, troppo mutilati da anni di attacchi, ormai costretti a contare su di me per sopravvivere.
Il suo enorme corpo anellide si disarticolò, le costole si allargarono come una sghemba fisarmonica in espansione. Crollò a terra con un rumore grasso.
Ne approfittai per scattare fuori dal letto e saltarlo, scivolando in sala. Lo sentii rotolare alle mie spalle. Mi gettai in un angolo, tremante.
L’uomo-pancia rovinò nella stanza. Si avvicinò. Estrasse quella schifosa lingua e prese a leccare il pacchetto sotto l’albero.
- Ti sei fatto regalare i soliti dolcetti, vero?
Schiacciato contro il mio angolo, scoppiavo d’ansia.
Sì, sempre gli stessi stupidi dolcetti, anno dopo anno, pensavo.
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Il mostro tirò il pacco dentro la propria bocca. Continuava ad avvicinarsi.
- Stavolta non puoi scappare. Stavolta mangio il resto.
La mia mano corse al moncherino che mi spuntava dalla spalla destra.
Lui fece scattare ancora la lingua e inghiottì l’albero, strappando le luci dal muro.
Il suo alito su di me, nel buio, vicinissimo.
Attesi la lingua, ma non venne. Invece, l’uomo-pancia cominciò a emettere dei suoni orribili, ribaltando ogni cosa, strillando. Infine, il silenzio.
Sì, per anni gli stessi stupidi dolcetti.
Quando mi arrischiai ad accendere la luce, già ridevo.
Solo perché non sospettasse nulla l’anno in cui chiesi a Babbo Natale un pacchetto colmo di lame di rasoio.
Quel Natale fummo noi a mangiare l’uomo-pancia. Dopo averlo svuotato e ripulito, scoprimmo che poteva ospitare una dose impressionante di ripieno.
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