Davanti alla porta eravamo io e Milorad: sulla targhetta dorata, sopra il campanello, la scritta “Levi”.
«Ebrei col culo pieno d'oro» disse manomettendo la serratura col grimaldello.
In camera trovammo un paio di orologi e qualche banconota. Speravamo nella cabina armadio e invece c'erano solo fogli, libri e una statua alta quanto un bambino: spalle larghe, occhi chiusi, per metà coperta da un telo polveroso.
«È d'oro, Branisa?» disse Milorad.
La tastai, scossi la testa. Sembrava più argilla, ed era pure rotta: sulla fronte aveva un piccolo buco.
«Merda» disse lui. «Controlla bene, vado di là.»
Mi guardai in giro: l'unico libro in italiano si intitolava “Il Golem”. Lo sfogliai: parlava di una specie di robot che eseguiva ogni genere di ordine, bastava scriverlo su un bigliettino e infilarglielo nella testa. Per scherzo, scrissi “raggiungimi” e l'indirizzo del mio appartamento. Ne feci una piccola pergamena.
«Okay, fuori di qua» disse Milorad, facendo tintinnare delle collanine. Infilai il foglietto nel foro e fuggimmo.
Quella notte stavo fumando sul terrazzo quando vidi il Golem trascinarsi sul marciapiede, il telo polveroso a mo' di mantello. Scesi al portone, lo feci entrare in casa e qui si spense.
Iniziammo a sfruttarlo.
Sfondava finestrini delle automobili, vetrine, bancomat - qualunque cosa. Più incassavamo e più lui cresceva, divenendo sempre più forte.
Aveva superato i due metri, quando Milorad propose di fargli uccidere qualcuno.
«Così faremo dei soldi veri», disse.
Rifiutai. Litigammo. Dovevo nasconderlo, anche se gli amici di Milorad mi stavano addosso. Trovai uno scantinato, ma dopo poco lo trovarono anche loro. Il Golem scomparve.
Un'ora fa, WhatsApp: la foto di un foglietto, la scrittura incerta di Milorad. “Uccidi Branisa”.
Sono barricato in camera, ora. Il cigolio della porta, lo scricchiolio del parquet. E tutto quello che riesco a pensare è: “Sta arrivando, sta arrivando”.