Quella sera la tensione si tagliava con il coltello. Il nonno voleva sapere chi era stato.
Eravamo tutti riuniti attorno al tavolo da pranzo. Il nonno aveva un’espressione feroce, che non gli avevo mai visto: naturale, Greta era la sua preferita.
Aveva fatto molto caldo quel giorno, e io e i miei fratelli avevamo giocato ininterrottamente sino all’ora di cena. Greta, la più piccola tra noi, era scomparsa nel pomeriggio: niente di male, dato che era una gran rompiscatole. L’aveva trovata il nonno, riversa vicino al fiume, con la bella testolina bionda sfondata. Ricordo pezzi di cervello sparpagliati nell’erba alta, e moltissime mosche che le ronzavano intorno, pregustandosi una ghiotta merenda.
Nessuno parlava. Tenevamo tutti la testolina bassa. Il nonno attendeva, ma nessuno avrebbe confessato.
Quando fu stanco di aspettare, con una strana luce negli occhi, invitò alcuni dei miei fratelli a seguirlo. Poco dopo udimmo delle urla terribili provenire dalla cantina: li aveva gettati nel rettilario.
Rimanemmo in tre seduti al tavolo. Quando il nonno rientrò ci ritrovò un po’ più disposti al dialogo. Ci accusammo l’un l’altro, evitando di dire la verità.
Il nonno allora, furibondo per aver già perso molti nipoti e convinto della bontà del suo metodo educativo ci ordinò di uscire. Ci condusse al recinto dei cani e ci costrinse ad entrare, nonostante implorassimo pietà. Quelle bestie erano sempre affamate, il nonno le teneva a stecchetto. Sbranarono i miei fratelli immediatamente, mentre io riuscii a salvarmi, arrampicandomi sulla rete.
Rientrai in casa. Il nonno stava piangendo. In punta di piedi gli arrivai alle spalle. Lo colpii con l’ascia con cui avevamo ucciso Greta; lui si rialzò, come se nulla fosse. Grondante di sangue, con l’ascia conficcata nella testa, aprì la porta ed uscì, scomparendo nella notte nera, alla ricerca di nuovi nipotini da educare.