Ormai era consuetudine.
Sapeva che stavano soffrendo e si fermava a guardare, ogni giorno.
Poi un sorso di caffè e l'ultima occhiata a quelle bocche senza voce, gli piaceva pensare che lo pregassero, con quelle assurde pinne. C'era da sorridere.
Per togliere un acquario diventato ingombrante serve che muoiano i pesci. Tutti.
Quindi basta pulizia, basta cibo, basta termostato.
Credeva sarebbe stato spiacevole, sbagliava.
Talvolta prendeva la poltrona, la metteva difronte al vetro ormai incrostato e rifletteva.
Dare questa morte lenta era una metafora della caducità delle cose. Una riflessione profonda, che valeva senz'altro la morte di quei piccoli esseri.
Questo all'inizio. Poi era arrivato il piacere. La soddisfazione nel percepire quell'agonia così banale. Sperava avessero coscienza di cosa gli stava capitando, rincorreva quella speranza. E quando restava deluso allora si accaniva. E versava cucchiaini di bicarbonato nell'acqua, oppure prendeva a colpire il vetro a mano aperta.
Dovete/comprendere/la/sofferenza/che/io/vi/sto/procurando.
E così perpetrava quella tortura.
Iniziarono a morire. Li vedeva galleggiare a pancia in su, gonfi della sua morte artificiale.
Morirono tanti, l'intero acquario quasi.
Tranne uno.
Sembrava non patire nessuna tortura, ne il freddo, ne le privazioni.
Dargli una morte istantanea sarebbe significato cedere.
Che sopravviva quindi!
E ogni giorno sarà peggiore di quello che l'ha preceduto!
Poi quella notte.
Rumore di gocce, incessante, da spaccargli il cranio. Odore umido, come di fognatura.
E l'acqua, a spruzzi sul viso.
Accende la lampada sul comodino.
Davanti a lui, fermo, orribile.
Il pesce.