Il mio peggior amico è un gatto nero.
Mi segue ovunque, non mi lascia mai. Si sdraia ai miei piedi e dorme. Quasi sempre.
Quando si sveglia mostra lunghe zanne e artigli affilati, mi spaventa. Guardo nei suoi occhi gialli e mi piego a nascondere il volto fra le ginocchia.
Voglio che se ne vada, corro a nascondermi, ma immancabile ricompare. Solo il cibo lo placa, facendolo riacciambellare inerte. Così lo nutro, perché non apra mai completamente gli occhi.
Ho detto alla mamma del gatto nero. Si è fatta triste, mi ha carezzato la testa e abbracciato forte: - Passerà, resisti -. Quella sera la mamma ha pianto, pensando che non sentissi.
I miei compagni di classe ridono di me, quando il gatto nero si sveglia. Non capiscono la paura, l’ansia.
Elisa è l’unica che non ride. Mi viene vicino e mi abbraccia, nascondendomi. I suoi genitori sanno del mio amico gatto nero, anche se non ne parlano, fingono che non sia lì. Mi invitano spesso da loro, per placarlo. Lo ignorano per non agitarmi, e sono felice per questo.
Ora sono adulto, il mio amico dorme sempre, ben nutrito e mai minaccioso. A volte penso che potrebbe svanire e non tornare mai, ma mi illudo soltanto.
Una volta fissato negli occhi, non importa quanto possa nutrirlo, quanto mi senta al sicuro e stabile, quanto la mia dispensa o la mia pancia trabocchino. Al gatto nero non importa. Anche se ora dorme, i suoi occhi gialli hanno guardato dentro di me e hanno messo radici. Non posso scordarli. So cosa possono fare e non mi abbandoneranno mai.