“Qui è tutto sistemato” il fotografo strinse le ultime manopole del piedistallo bofonchiando e tentando invano di trattenere l’eccitazione. Ci aveva confidato di aver preso l’attrezzatura adatta da poco ed era visibilmente soddisfatto del risultato ottenuto.
“John! Sei pronto?” mamma scostò la tenda e mi invitò a seguirla con un sorriso mesto che mal celava il suo stato d’animo.
Entrai nel salotto.
Mi ripetevo come un mantra le parole della tata “Non toccarlo, men che mai non fissarlo!”.
Facevo fatica a mantenere lo sguardo basso, lontano dalla zona allestita per la foto. Esitavo talmente tanto a compiere gli ultimi passi verso la sedia dove sapevo di dovermi dirigere che fu solo la leggera spinta di mio padre ad innescare l’ultimo movimento. “Vai John, raggiungi tuo fratello per la foto ricordo”.
Nel sedermi non potei fare a meno di notare le scarpe di George, vistosamente disallineate, e pensai a come avrebbe fatto il fotografo a non immortalare quel trabiccolo.
“Cerca di sorridere se puoi. Tuo fratello ne sarebbe felice!” la camera fotografica emise un ronzio mentre io forzavo le labbra.
Il bagliore e il suono metallico furono un tutt'uno. Prima di riabituare la vista potei sentire la pressione sul mio corpo, qualcosa intorno al collo e una presenza di fronte al mio viso. Urlai mentre mio padre e il fotografo mi toglievano dal lugubre abbraccio di mio fratello.
Durante lo scatto, il piedistallo che sorreggeva la salma di George aveva ceduto di schianto. Quello che era rimasto impresso era un movimento nero e sfocato, quello che ricorderò per sempre sarà il viso di George così vicino al mio, la bocca spalancata, la lingua grigia come un verme alieno e gli occhi... quegli occhi vuoti e sbiaditi, tenuti aperti da graffette metalliche, che mi fissavano senza sosta.