Era un vecchio ascensore del secolo scorso, risalente agli anni Trenta. La cabina lignea, stretta: a malapena ci si poteva stare in due. E poi era lento, rumoroso e sporco. Quando l’amministratore condominiale diede il benestare alla sua sostituzione, durante l’ultima riunione, tutti i condomini ne furono a dir poco entusiasti. Tutti tranne me.
Ricordo quando ero un giovane Balilla. Il palazzo era nuovo, forte e fiero delle sue mura. L’ascensore: un lusso, una modernità tutta per noi, il futuro. Amavo il ronzio del suo motore, i cavi tesi d’acciaio e il colore nero della cabina in ebano. Per gioco, l’idea di salirci sopra ed immaginare di raggiungere le stelle premendo un solo bottone, mi elettrizzava.
Un giorno così, a soli nove anni, presi il coraggio con le mani e decisi di andarci da solo. Ai bambini era proibito; mio padre, per questo, avrebbe potuto consumare un’intera cinghia sulla mia pelle. Ma io ero un ardito e me ne fregavo. “Al diavolo” dissi.
Chiusi le porte alle mie spalle. In punta di piedi mi allungai fino a premere il bottone numero tredici: l’ultimo piano. Salivo svelto, finché l’ascensore si bloccò a metà strada.
Un allarme suonò nel mentre. La sirena della contraerea incalzava la fuga verso i rifugi. Quel giorno nessuno sarebbe venuto a salvarmi. Poi l’ascensore si mosse verso il basso, veloce, sempre più veloce: precipitavo. Continuavo a cadere in profondità, finché le fiamme non mi invasero dentro la carne.
Quando rinvenni era tutto finito, ma la mia vita fu legata a un patto.
Anno dopo anno, l’ascensore sceglie con cura le proprie vittime da mandar giù. Ed io le accompagno, sempre.
“Buongiorno signor Brambilla! E’ contento della novità? Finalmente un nuovo ascensore. Devo solo portare queste carte al Comune ed è fatta”.
“Scende, signor amministratore?”