La mano guizzò dalla zuccheriera e gli afferrò il polso. Egli fece un balzo all’indietro, picchiando la nuca contro la parete piastrellata.
Mentre scivolava a terra, gli si annebbiò la vista e per un momento perse i sensi.
Si ritrovò seduto con le gambe divaricate. La zuccheriera era rovesciata, sull’orlo del mobiletto; una certa quantità di polvere bianca era ammonticchiata sul pavimento.
Giovanni Zecchi impiegò un bel momento a raccapezzarsi, prima di rimettersi in piedi. Doveva essere stata un’allucinazione. In tal caso c’era da preoccuparsi. Benché si sentisse benissimo, nella perfetta forma dei suoi quarantasette anni, non poteva escludere che gli stesse venendo qualche brutto accidente. E la sua mente andò subito all’amico Dario, coetaneo, morto un anno prima di tumore cerebrale.
Si sollevò con un po’ di fatica e rimase fermo in piedi, saggiando l’equilibrio. Sì, le gambe lo sorreggevano, ma una specie di nausea gli aveva preso la bocca dello stomaco. Raddrizzò il recipiente, scopò via lo zucchero versato e decise che ci voleva un bel sorso di cognac al posto del caffè che si era preparato.
Sprofondato nel divano, con il bicchiere in mano, provò a riconsiderare l’accaduto.
La sensazione era stata vivida, senza dubbio. Aveva proprio visto quella mano uscire dal recipiente di metallo cromato; e la stretta era reale. Si guardò il polso. Nessun segno, ma poteva rievocare con precisione quella morsa, come di chi afferri qualcuno per dargli uno schiaffo o sputargli in faccia.
Forse era semplicemente la stanchezza che cominciava a dare i suoi malefici frutti.
Nella sua attività di impresario edile, stava passando un periodo piuttosto brutto. Prima la crisi, poi le tasse, e ora quei fastidi dovuti alla concorrenza. E non era tutto: con la moglie Anna, il rapporto cominciava a fare cilecca. Poi c’era di mezzo il figlio che frequentava la terza media e non aveva alcuna voglia di studiare. Giovanni dormiva poco e male, di notte. Era nervoso, irascibile, sul lavoro come nella vita privata. La strana esperienza che aveva vissuto poco prima, in cucina, poteva essere un segnale di surmenage.
Esalò un profondo sospiro. Dopotutto la cosa poteva avere una spiegazione semplice. Forse non c’era proprio nulla di catastrofico.
Ma gli venne in mente quell’altro fatto, accaduto un’ora prima nel giardino della sua villa.
Gliela aveva fatta vedere brutta a quella zingarella, sì, decisamente brutta. Le sarebbe passata la voglia di intrufolarsi nelle proprietà delle persone per bene, con l’intento di rubare... o peggio. Forse aveva esagerato, ma quella se l’era meritato. Lunedì sarebbe andato in Comune, avrebbe fatto un pandemonio, avrebbe tirato su di giri il sindaco, leghista come lui, perché prendesse finalmente una decisione, in barba a quei buonisti dell’opposizione. Doveva essere rimosso, una buona volta, quel maledetto campo Rom in periferia. Gliela avrebbe prestata lui una ruspa, sottraendola volentieri alla routine lavorativa.
Ebbe un sussulto, girò di scatto la testa. Gli era sembrato che una mano si fosse posata sulla sua spalla.
Lasciò il bicchiere sul tavolino e si alzò in piedi, come se avesse visto un serpente. Ecco, adesso gli stava passando la voglia di ritrovarsi da solo in casa. Se non stava bene, avrebbe voluto avere Anna accanto a sé. Gli sarebbe bastata anche la presenza della cameriera. Ma la moglie era andata a passare il fine settimana a casa dei suoi genitori, portandosi dietro il ragazzino. Inoltre aveva dato due giorni di ferie alla domestica, sperando così di trascorrere un sabato e una domenica di assoluto riposo, in perfetta solitudine: ciò che aspettava da un po’ di tempo. Ma ora non era più così convinto. Ci fosse stato almeno Athos. No, neppure il suo Doberman era presente in villa, perché proprio in quei giorni l’aveva prestato ad un amico per scopi riproduttivi.
Andò alla vetrata, appoggiò il naso al cristallo osservando il giardino: era immerso nelle tenebre serali di quel secco e gelido dicembre. Solo un lampioncino faceva un po’ di luce vicino alla siepe di alloro.
Rabbrividì.
Qualcosa guizzò da un risvolto della tenda semiaperta. Lo afferrò alla gola e lo mandò a sbattere con la fronte contro il pannello di vetro. Poi sparì.
Giovanni ebbe una specie di conato e si piegò in avanti, gli occhi e la bocca spalancati per il terrore.
Non erano sensazioni, né allucinazioni. Una mano in carne e ossa, con tutte e cinque le dita, lo stava perseguitando. E allora gli venne in mente che con la piccola rom doveva proprio avere perso le staffe.
- Maledetta... ladra - sibilò.
Poi andò nell’angolo del salotto dove, su un tavolino, c’era il cordless. D’istinto lo tolse dal suo supporto per telefonare alla polizia, anche se qualcosa gli diceva che forse era meglio a uno psichiatra.
Lo sguardo gli cadde su un block-notes, aperto sul ripiano. In cima al foglio campeggiava la frase:
Se io sono una ladra, tu sei un mostro
Da sopra la spalla ricomparve la mano, la quale teneva una strana penna, vagamente somigliante a un pugnale. Scese sul foglio e scrisse:
Devo scrivere il resto, stronzo?
E mentre la mano correva sul foglio, l’impresario Giovanni Zecchi leggeva, inebetito, quello che sapeva già: cioè che la sera stessa, mentre rientrava in villa, aveva sorpreso la giovane ragazza rom che si aggirava tra le aiuole del giardino; l’aveva afferrata, l’aveva condotta sul retro, l’aveva immobilizzata e con un segmento di tubo di ferro le aveva rotto tutti e due i polsi, poi l’aveva trascinata al cancello e l’aveva scaraventata nel vicolo solitario sul quale si affacciavano le altre villette.
Alla fine, l’orribile mano impugnò la penna come se fosse un coltello e glielo ficcò nel cuore.
Giovanni Zecchi piegò le ginocchia e cadde riverso sul tappeto.
Prima di esalare l’ultimo respiro rivide la zingara, sotto la luce fioca di un lampione, girarsi verso di lui. Aveva due occhi di fuoco e pronunciava con odio una frase in chissà quale lingua.