Che rispondere a un uomo che vi dice di obbedire Dio che agli uomini e che quindi è sicuro di meritare il cielo sgozzandovi?
Voltaire, Dizionario filosofico
Giugno era esploso con tutta la sua vitalità, la sua allegria. Nonostante la crisi economica continuasse ad aleggiare, come una pesante ombra malefica, la spensieratezza si sprigionava nei vicoli affollati della città e sui volti della gente; i ragazzini assaltavano le piazze come pirati trasformandole in veri e propri campi di calcio: nella centralissima piazza Garibaldi, spesso e volentieri, all’Eroe dei due mondi era assegnato il ruolo di arbitro e, mancando altri personaggi illustri, anche quello di guardalinee. Il caldo non si era fatto attendere: sin dalle prime ore del giorno, i raggi insistenti di un sole afoso, stringevano le strade in un assedio continuo. Una leggera brezza solleticava il mare calmo rendendo sopportabile, di tanto in tanto, l’umidità di cui erano carichi persino i palazzi e i visi sfatti dei passanti. I rumori assordanti, le voci, le urla dei commercianti del quartiere rionale, che invitavano a comprare, fragole, angurie, meloni, caroselli e quant’altro, circondavano la piccola ma dignitosa macelleria De Bernardis. L’interno del negozio era ben assortito e in alto, l’imponente effigie di San Nicola, ne scrutava, imperiosa, ogni angolo: quel locale era talmente immerso in una profonda religiosità che sin anche le carni, esposte nel banco, sembravano respirare l’aria del sacro. Del resto Giovanni De Bernardis, uomo alto e massiccio di quarantadue anni, non aveva mai fatto mistero della sua sconfinata devozione nei confronti del vescovo di Myra. E poi figuriamoci!
Da quando le pareti della macelleria ospitavano l’immagine santa, la clientela era triplicata! Non era, questo, uno dei segni, vivi e tangibili, della bontà e grandezza del Santo? Per Giovanni tutto era logico perché rientrava nella logica benedetta di San Nicola. Giovanni non credeva nel caso; la cosa più piccola, anche la più irrilevante, era accaduta, nella sua semplice vita, perché Qualcuno voleva che accadesse, prendesse quella determinata direzione e acquistasse quel determinato senso: il lavoro, l’incontro con la moglie Angela, la nascita del suo amato bambino, non erano mattoni incastonati da un cieco destino ma l’opera di una Volontà che vede e provvede. E poi c’era Nicolino, suo figlio, nato l’otto maggio, il giorno del Santo: come si poteva rimanere indifferenti davanti a un evento simile? Per Giovanni era impensabile che quella nascita, in quel giorno speciale, fosse pura coincidenza. Era chiaro, come la potente luce del sole, che Nicolino apparteneva a San Nicola.
Nicolino aveva sei anni, era un bambino vivace, solare; i suoi occhi grandi e neri e le sue guance rosse emanavano dolcezza infinita. Nicolino, d’estate, dopo aver finito di giocare con i suoi compagni, passava un po’ del suo tempo in macelleria dove rimaneva incantato nell’osservare l’abilità del padre mentre affilava, tagliava, incartava ed interagiva con i clienti. Quando la sua attenzione si soffermava su quei grossi coltelli Nicolino, rimaneva leggermente turbato e gli veniva subito in mente quella brutta storia che i compagni di scuola erano soliti raccontare. Si trattava di un macellaio malvagio che, una volta fatti a pezzi i suoi figli, aveva riposto le carni in un barattolo vendendo le carni sotto sale. Ora Nicolino non aveva molta voglia di andare a finire in qualche barattolo sotto sale perciò una mattina, con il faccino poggiato sulle manine giunte, chiese, con gli occhioni neri spalancati sprizzanti viva curiosità, se quella storia fosse realmente accaduta e, subito dopo, non tardò di ricordare al padre che la maestra aveva classificato quell’episodio come una leggenda.
- Papà cos’è una leggenda?- domandò Nicolino, a bruciapelo, avido di risposte.
Alla sola parola leggenda, Giovanni sussultò, il viso gli s’incupì, la mano iniziò a tremargli e il suo sguardo divenne serio e impenetrabile.
- Una leggenda è un fatto inventato. La tua maestra è bugiarda, Nicolino. Quella non era una storia inventata ma un fatto vero, verissimo e San Nicola l’ha fatto il miracolo resuscitando i tre bambini. L’ha fatto, l’ha fatto.
Giovanni era in preda ad un delirio crescente mentre Nicolino non capiva, era confuso. Intuiva soltanto che la paura non era il semplice frutto della sua fantasia: la percepiva, la sentiva strisciare sulla pelle madida di sudore.
Il padre improvvisamente placò la rabbia, si precipitò a chiudere la saracinesca, prese due coltelli dal bancone e li strofinò con cura sotto gli occhi immobili de figlio.
- Su Nicolino, calmati, adesso papà ti farà vedere che il tuo Santo, il nostro Santo, i miracoli li fa davvero. Vedrai che dopo tornerai, tra noi, pieno della sua grazia divina.
La voce di Giovanni era spaventosamente calma, le parole gli sgorgavano dalle labbra come lava pronta a inondare, lentamente, qualsiasi cosa incontrasse sul suo percorso. Secondo, dopo secondo, quel fiume infernale avanzava minaccioso accerchiando il piccolo cuore di Nicolino. Il bambino avrebbe voluto dire al padre di fermarsi, gli avrebbe assicurato che, da quel giorno in poi, avrebbe fatto il bravo o che avrebbe detto alla maestra, a muso duro, che era cattiva perché non credeva al racconto del macellaio malvagio; ma non ci riusciva, era paralizzato, pietrificato tant’è che le sillabe rimanevano imprigionate nel fondo dell’animo e non tornavano su. Nicolino indietreggiò urtando la spalla contro il muro, tentò di muoversi ma invano perché le sue gambe non gli permettevano di muovere altri passi. Per poi andare dove? La serranda era completamente abbassata e le sue esili mani tremanti non ce l’avrebbero fatta a sollevarla. Impotente, osservava il padre andargli incontro. Intanto Giovanni, con movimenti cadenzati e ben calcolati, continuava a sfregare i coltelli; attraverso il coltello lucido Nicolino notò le sue pupille scivolare lungo le lame affilate, seguì un urlo straziante, lo sguardo scorreva rapido sulle lame, toccò la punta aguzza del coltellaccio e si dileguò piano piano dileguandosi nel vuoto. L’urlo attraversò l’intero negozio, sfiorò il quadro di San Nicola e volò via oltrepassando le fessure della saracinesca mescolandosi alle voci provenienti dal mercato.
- Pesche buone, pesche dolci, a due euro e dieci il chilo.
- Sogliole fresche, appena pescate, a dodici euro il chilo.
Poi il silenzio...
- Allora papà hai letto il mio racconto? Che ne pensi - domandò Martina impaziente.
- Niente male, tesoro - le rispose il padre mentre tagliava un pezzo di roast beef per la cena.
Interessante come lo hai costruito mantiene alta la tensione e tiene col fiato sospeso nel finale. Il tuo stile ricorda tanto quello di tua madre, inconfondibile. La citazione di Voltaire, un particolare, anche questo, tipico del modo di scrivere della mamma, non mi è dispiaciuta, l’ho trovata una scelta ad effetto.
- Grazie papà, sono contenta che l’abbia apprezzato, lo sai che, per me, il tuo giudizio è molto importante - gli disse schioccandogli un bacio.
- Vedi tesoro – riprese la parola il padre - sei una ragazza sensibile, intelligente, piena di qualità. Ma vorrei che non passassi il tuo tempo sempre tra i libri, il computer e i tuoi racconti noir. Ciò che scrivi è bello, anche se macabro, e io so dove vuoi arrivare nella vita; dopo il liceo farai di tutto per diventare una scrittrice affermata e sono sicuro che ci riuscirai perché sei caparbia e testarda – continuò il padre sorridendo – ma, nel frattempo, non trascurare la vita sociale: esci un po’ di più, coltiva le tue amicizie, apriti al mondo, trovati un amore. Sei una ragazza splendida...
- Ma papà – replicò Martina leggermente infastidita – è questo il mio mondo, questo il mio amore. Lo sai benissimo che dopo l’inspiegabile uccisione della mamma la mia vita è diventata molto più difficile di quanto tu possa immaginare. Ho bisogno di tempo papà, solo di un po’ più di tempo – soggiunse ancora Martina con le prime calde lacrime che albeggiavano sul dolce viso - Voglio continuare a scrivere esattamente come faceva lei perché è questo il modo che mi lega indissolubilmente al suo ricordo. La sua presenza la scorgo in ogni singola parola che scrivo e in ogni riga riesco a collegare piccoli frammenti della sua vita.
Il padre non replicò mostrando d’aver compreso le sensazioni della figlia e riprese a tagliare il roast beef dato che l’ora della cena era vicina; mentre tagliava osservava con insistenza Martina volgergli le spalle intenta a raccogliere i fogli del racconto dal mobiletto della tv. Le si accostò con passi felpati, la mano reggeva il pesante coltello e gli occhi sembravano schizzar via dalle orbite.
- Tesoro perché non trasformiamo il tuo meraviglioso racconto in una splendida realtà? Vedrai che così funziona meglio...
Martina si voltò di scatto, sbarrò gli occhi, rabbrividì, emise un assordante sospiro di paura e timidamente cominciò a muoversi: il suo obiettivo era raggiungere la porta della cucina. Tentò di affrettare la corsa ma aveva il fiato del padre addosso, era completamente braccata. Ad un certo punto Martina si fermò, fece scivolare le mani sudate lungo le mattonelle, producendo un suono intenso e stridulo, e si rivolse al padre.
- Papà è uno scherzo, vero?
- E chi ti dice che sto scherzando, angelo mio...
- Martina, cos’hai? – ansimò il padre scuotendola per le braccia.
- Niente papà – lo rassicurò Martina con un mezzo sorriso nervoso – è la mia fantasia che viaggia. Ho visto te con il coltello da cucina: volevi rendermi la protagonista reale del mio racconto. Dio mio, hai ragione tu, devo smettere di scrivere questo genere di cose – proseguì la ragazza, avvinghiando il padre in un caldo abbraccio, felice di essere uscita dal tunnel di quelle visioni raccapriccianti.
- Sei sicura che sia stata solo la tua fantasia, bambina mia? Anche tua madre ne era convinta quando le capitava di vedere cose strane dopo aver scritto le sue storie – replicò il padre sogghignando mentre le accarezzava i lunghi capelli biondi...