“Pazzo!”, mi hanno detto. E poi gli sputi, gli insulti e infine il linciaggio. Se solo gli sbirri non fossero intervenuti in mio aiuto, se solo quella gente non avesse esitato all’ultimo, picchiandomi più forte, mentre la faccia si disfaceva nel sangue e le ossa si frantumavano in schegge taglienti pronte a lacerarmi ad ogni scossone dentro e fuori al mio corpo. Magari una di queste avesse potuto recidermi un arteria, o meglio trafiggermi di netto il cuore per fermare l’orrore nella mia testa e così fuggire per sempre da quella violenza immonda.
E invece sono sopravvissuto. L’unico, che io sappia, ad aver visto l’abisso nel cielo per poi raccontarlo.
Chi sono poco importa. Ciò che conta è la storia che qui leggerete, benché priva di sensatezza e di prove inconfutabili. E’ tutto ciò che mi rimane per mettere in guardia la mia specie dal pericolo che incombe sopra le nostre insignificanti teste.
In questa camera di ospedale, al sicuro dal caos di chi grida giustizia, io redigo l’orrore, prima che l’ottusa legge dell’uomo faccia il suo corso e interrompa la mia lucidità mentale con le sue domande, i suoi farmaci e le rassicuranti ciarlatanerie di medici pronti a farmi imboccare la strada più comoda verso il manicomio.
Tutto iniziò una mattina fra tante, mentre andavo al lavoro a piedi, tagliando per il parco. Attraversavo il verde dei giardini pubblici immersi nella luce del sole estivo, a tratti frastagliato dalle mille frasche di vecchi alberi secolari. Quale miglior modo per cominciare la giornata se non immersi nella natura?
La ghiaia del sentiero crepitava con piacere sotto le scarpe. A quell’ora non c’era quasi nessuno e il parco, per un attimo, sembrava mio. Ma poi la luce cominciò ad affievolirsi sempre più, come se stesse arrivando un temporale. Il sole però brillava ancora e in alto non c’erano nuvole ad oscurarlo. Mi accorsi così dei rami, del loro rumore, contorcersi sopra di me a diversi metri di altezza in reti sempre più fitte, sempre più strette, quasi a formare un tetto sopra il parco stesso.
Affrettai il passo lungo il percorso. Ma la luce era sempre meno, e infine arrivò il buio. Qualche raggio filtrava ancora dalle piante, a malapena potevo vedere i miei piedi. Mi sentivo soffocare da un’aria opprimente, mentre il sentiero si confondeva tra le ombre e la ghiaia si sostituiva poco alla vota al fango.
Gridai, lo ammetto, per cieca paura. Sentii una sensazione sinistra perseguitarmi, strisciante, lungo le cortecce degli alberi di un parco trasformatosi in palude.
Mi ero perso. “Aiuto!”, gridavo. Nessuna risposta. Gli unici suoni provenivano dall’alto. Suoni di parole confuse. Voci, inizialmente, e poi grida taciute dallo stridore di legni contorti.
Camminai per ore, incerto. E quello che mi fermò fu solo l’inizio di una spregiudicata follia. Sentii una pioggia densa e viscosa bagnarmi il capo. Ormai non vedevo più nulla, dovetti assaggiarla per capire cosa fosse. E capii. Con le lacrime a solcare il viso, sputai il sangue che a fiotti irrigava la terra. E gridai, ricordo, come un maiale in attesa del macello, conscio del suo nefasto destino.
Qualcosa poi mi afferrò alla caviglia, elevandomi sopra quel tetto. E mentre salivo le voci si facevano sempre più forti e i legni scricchiolavano come antichi vascelli in tempesta, insieme alle grida di povera gente letteralmente spremuta come arance tra i rami degli alberi. E anch’io, come loro, sarei stato il prossimo a nutrire la terra.
Ma l’orrore non finisce con la morte. Sopra il tetto del parco vidi un cielo alieno e buio. Più nero della notte stessa, un cerchio circondato da nubi occupava per tre quarti l’intera volta celeste. E al centro ad esso echeggiava il suono di flauti e tamburi accompagnati da preghiere blasfeme e da quel nome immondo: “Ghanechal”.
Guardavo con terrore il nero di quella pupilla cosmica: un occhio circondato da vapori e da lunghe ciglia tentacolari, setacciavano la terra per nutrirla con le carni degli uomini. Fino a quando si accorse di me.
Mi fissò dal cielo, leggendomi i miei più remoti pensieri. E la testa, per questo, incominciò a pulsare tra lancinanti dolori. Ciò che mi fece vedere è a dir poco indescrivibile: un abisso di mostruosità impalpabile eppure reale, si contorceva dentro la nera pupilla in vortici di vapori e grida orrende. Una dimensione sconosciuta e inconcepibile per una mente tanto limitata come la nostra. Mai soffrii così tanto. Sarei voluto morire piuttosto che sopportare ancora un solo istante quell’orrore. Finché svenni e il grido di un’intera famiglia terrorizzata mi svegliò il giorno seguente. Ero nudo, disteso per terra, ricoperto da diversi resti umani. In un attimo una folla di persone cominciò a prendermi a sassate, a bastonate, chiamandomi mostro. Assassino. E poi, naturalmente, la polizia.
La scientifica identificò sul mio corpo almeno un decina di lembi di carne umana appartenenti a diverse persone. Il test del Dna, invece, ne trovò molte di più: un centinaio. Dove erano finite tutte quelle persone? mi chiedevano. “Gli alberi, - rispondevo - hanno nutrito la terra”.
Ora guardo fuori dalla finestra dell’ospedale l’assembramento di migliaia di persone assetate di giustizia, e dietro di loro quel parco che un tempo amavo ed ora temo più di ogni cosa.
Eccomi gente, adesso prendete pure la mia carne, assetatevi della vostra giustizia, io ho fatto ciò che Ghanechal mi ha detto di fare. Dalla finestra vi saluto, un ultimo addio, sperando che questo salto non mi danni per sempre in chissà quale altro oscuro mondo.