“Cade o non cade?”
Carlo stringeva la zampa come se volesse contare ogni ossicino al suo interno, e intanto cercava di trattenere il sorriso sadico che i suoi compagni conoscevano bene.
“Allora? Cade o non cade?”
A quel punto qualcuno rispondeva, qualcun altro fingeva di conoscere già il risultato e alla fine Carlo mollava la presa.
Da quando la sfida delle rane era diventata il loro passatempo preferito, il ricordo del piccolo Giuseppe sembrava svanito: che il pozzo dell’abbazia sconsacrata l’avesse divorato quarant’anni prima e mai restituito era una storia che non impauriva più nessuno.
All’inizio avevano provato con qualsiasi oggetto: sassi, rami, pezzi di frutta. Poche cose precipitavano, il resto rimaneva sollevato, come se la gravità sopra la bocca del pozzo non esistesse.
Era stato Carlo ad avere l’idea. Il suo ghigno si era acceso un pomeriggio di Giugno, sentendo un ranocchio gracchiare dal fosso accanto al monastero.
Tutta l’estate era trascorsa guardando quegli esseri tendere gli arti in modo surreale mentre, coi i bulbi gonfi di terrore, cercavano un sostegno, un appiglio nell’aria.
Di recente, però, l’oscurità ne ingoiava più di quante ne risparmiasse, così i bambini avevano iniziato ad annoiarsi. Carlo invece non voleva arrendersi, non voleva rassegnarsi a tornare anonimo e antipatico a tutti.
Aveva aspettato invano l’arrivo degli altri, era già sera ma non si era presentato nessuno. Carlo gettò furioso tutte le rane raccolte quel giorno – un secchio intero – e si arrampicò sul bordo.
Si protese per capire come mai la magia stesse finendo, in fondo alla cavità nera vide due piccoli occhi lucidi.
Prima che i suoi piedi si staccassero dall’orlo, trasportati sopra il vuoto, gli sembrò di sentire la voce di un bambino.
“Cade o non cade?” sussurrava dal profondo.