H. G. Wells lo ignorava, ma la macchina del tempo esiste da quando
l’evoluzione umana ha cancellato la tenebra dell’istinto animale. Questa
macchina è insita nello strato laminare di neuroni e fibre nervose della
corteccia cerebrale. La macchina può viaggiare verso il futuro sospinta da
sognate speranze di una vita migliore permettendoci di immaginare scenari
rassicuranti dove vivere un’esistenza da sempre desiderata; tuttavia essa può
spostarsi nel passato attirata dai ricordi della giovinezza, dal rammarico per
ciò che poteva e non è stato; di volti d’amori perduti e mai dimenticati.
A volte la macchina subisce guasti improvvisi materializzandoci in dimensioni
deviate, ove regnano incubi popolati da ancestrali paure. Nello specifico credo
siano i Morlock di Wells a inceppare la macchina in entrambe le direzioni
generando appunto il mio personale incubo. L’impalpabile marchingegno ha smesso
di viaggiare nel futuro poiché chi la manovra ha perso il lavoro, come altri
della sua generazione, ritrovandosi ai margini dell’umana dignità da una
terribile definizione imprenditoriale chiamata “ristrutturazione aziendale” che
ha interrotto il flusso di sogni e speranze, combustibile dell’avanti; ma
questo, credetemi, non è il problema maggiore.
Da sempre, infatti, la macchina mi ha inchiodato in un punto preciso del passato: 1 giugno 1980, il giorno in cui assistetti al funerale di mio padre. Giunto a questa stazione del tempo il reticolo mnemonico si sfalda impedendomi di inoltrarmi in una regione a oggi ignota. Ho desiderato varie volte poter rimuovere l’incubo di una domenica d’inizio estate di ormai quarant’anni fa così da riuscire a ricordare quell’uomo dai lunghi baffi neri e dal volto scavato da una vita di sacrifici ma niente. Questo fatto mi manda in bestia, sapete, perché una vera macchina del tempo almeno dovrebbe concedere a un figlio il ricordo di una dolce, perduta carezza di papà.
AROLDO CONTI
1938-1980