Una volta era uno studente che sbirciava le stelle e le galassie che stanno oltre la nostra, ora sono fissato con la luna.
Ho iniziato a adorarla sin dal primo giorno, quando comparve pallida in cielo una notte grondando sangue sin dove l’atmosfera come feltro iniziava a assorbirlo.
Io così la osservai coi miei occhi, ma non la trovai in nessun libro e alcun mio collega qui nell’osservatorio astronomico mai la vide così.
Ma io sentivo crescere in me la luna rossa tonda e piena e incominciai a adorarla e fissai con lei appuntamenti dai quali ogni umano era escluso.
Protesi le mani per mesi e mesi finché una notte riuscii a afferrarla e pezzo per pezzo la feci scivolare dentro il mio corpo, per dare sostanza e carne alla matrice che palpita dentro me.
La afferrai nei vicoli desolati della mia città e nell’oscurità, liscia e eburnea e l’abbandonai del colore e della freddezza delle ossa, nel mezzo l’assaporai con zanne che mai sospettavo di avere e il sangue coronava una peluria che nessun altro animale sulla Terra ha mai posseduto.
In questa notte il cielo è tutto rosso e lei sola esiste lassù, è nera, nerissima e solo un sottile orlo la separa dal Tutto, il bordo di un pozzo senza riposo al quale io con artigli di belva disperatamente mi avvinghio per non sprofondarvi.
Anche i miei colleghi astronomi attendevano l’eclissi, ma quando mi accorsi che non la vedevano come io la contemplo, proprio ora assisa nel suo carro trionfale, allora iniziai a conoscerli con le narici e con palme più sensibili al pulsare delle loro vene e iniziai a divorarli, l’uno dopo l’altro.
Per capire.
Perché in ogni istante e scientificamente l’homo può dimostrarsi lupus per i suoi simili.