Per quanto ci provassi, non riuscivo ad aprire la bocca. I denti stridevano fra loro, un dolore che dalla mascella si irradiava ovunque. Un terrore cieco si impossessò di me. Più cercavo di forzare i muscoli più le labbra si chiudevano, storcendosi pericolosamente. Era ovvio che da lì a poco mi si sarebbero spaccate le ossa della mandibola. Forze sconosciute tiravano, una verso destra, l'altra nel senso opposto, deformando il mio viso. Ero al fiume, sono stata rapita. Ero solita andarci la mattina, all'alba: nelle ore in cui la rugiada copriva con la sua mantella il prato pochissime persone si avventuravano fin là. Eppure tre uomini arrivarono in quell'alba dannata. “Strega, voltati”. Mi si sono rivolti così. Sapevo che giù in paese la gente iniziava ad aver paura di me. I miei capelli troppo lucidi, troppo neri. La pelle grigiastra di chi è scampato dalla lebbra.
I miei genitori morti, sbranati da un lupo (un lupo troppo grande, diceva la gente giù in paese) mentre raccoglievano le erbe di San Giovanni (che bisogno avevano di quelle stupide erbe se ora abbiamo il medico in paese, ha bisbigliato un giorno una donna). Li ho guardati dritti in faccia, osservavo gli abiti neri lindi e il cappello da ricchi. Mi hanno legata. Li ho seguiti docile fino alla cella. E non ho mosso un passo quando mi hanno immersa di nuovo nel fiume, più a lungo. Tormentum insomniae! Tormentum insomniae!, ripetevano. Non mi facevano dormire, mai. Ma ora non possono impedirmelo. La mia bocca è sigillata, la mascella bloccata, la mandibola spezzata. Ho ancora paura, è vero. L'unica cosa che mi consola è che fra pochi minuti un altro uomo ancora morirà, con la stessa smorfia di terrore di tutti gli altri prima di lui. E allora ci incontreremo di nuovo.