Sordo.
Non odo i rumori del traffico e il chiasso della città. Neppure lontani e ovattati, come quelli che penetravano attraverso i doppi vetri delle finestre della mia camera.
Non mi giunge più il canto mattutino degli uccelli, né l’abbaiare notturno dei cani.
Non sento nemmeno il suono del mio respiro.
Cieco.
Nell’oscurità, eterna notte priva del chiaro riflesso della luna come del flebile bagliore dei lampioni, disseminati lungo la strada, oltre il cortile di casa.
Forse sono i miei occhi a rimanere chiusi? Mando invano impulsi dal cervello ma non riesco a spalancare queste palpebre incollate.
Paralizzato.
Braccia, gambe, dita. Non posso contrarre un solo muscolo.
Non c’è da stupirsi che anche il senso del tatto non mi appartenga più.
Non percepisco il freddo, né il calore. Non un alito di vento accarezza la mia pelle.
Muto.
Chiedo aiuto, con tutto il fiato che ho in gola.
Produco un qualche suono? Il silenzio continua a regnare, sovrano di una dimensione ignota che mi vede suo inerme prigioniero. Terrorizzato, solo, perduto. La bocca non si apre e neppure la lingua accenna a muoversi.
Conscio.
Il cervello funziona... o forse si tratta dell’anima. Ricordo all’infinito, in un flusso continuo e circolare di frammenti d’esistenza.
L’infanzia, i genitori, gli studi. Il lavoro, Rebecca, il dolore dell’abbandono.
Ma ogni volta si ripresenta quell’immagine. Un bar, dall’altro lato della strada, luogo ideale per affogare un matrimonio fallito.
E rivivo, puntuale, lo stridore meccanico di una brusca frenata, l’acre odore di gomma bruciata, il sapore rugginoso del sangue, l’asfalto bollente fuso con la mia carne straziata.
Dunque a questo si riduce il dopo. Al solitario consapevole tormento.
Alla condanna dell’eterno pensiero.
Quando sono stato investito da quell’auto, ammasso mortale di lamiere?
Forse un anno fa.
Magari cento.
Oppure mille.