Tanja riprese coscienza perché qualcosa spingeva contro i suoi denti serrati, dall’interno.
Faticando nel coordinare i movimenti, schiuse la bocca: la serpe scivolò fuori svogliata, quasi stanca. Un rigonfiamento, a metà del corpo verde-nerastro, le dilatò le guance e spaccò gli angoli delle labbra, ma la ragazza non se ne avvide. L’animale schizzò fuori con una frustata, attorcigliandosi sul cuscino. Si guardarono negli occhi, vivido giallo contro lacrime opache. Tanja riannodò i fili del pensiero fissandoli su nozioni certe, ripescate da un vecchissimo esame universitario. Un biacco, esemplare femmina, 170-180 centimetri, 197-217 vertebre, specie ovipara… Si accorse d’essere immobile mentre il rettile s'allontanava: un polso scarificato era ancorato alla testiera del letto da una catena incrostata. Percepì lo stesso per l’altro.
Riconobbe la propria camera, silenziosa, ma non sentiva niente. L’assenza di dolore era straniante. Si voltò con lentezza e i lunghi capelli crocchiarono, impiastricciati; cominciò a ricordare.
Il viso di Elia, folle e morboso, e il suo seme caldo sulle guance lampeggiarono dalla memoria. Ora sapeva chi uccideva le ragazze, chi le straziava in quei modi aberranti, da tortura medievale. Lei era l’ennesima e lui, adesso, sarebbe stato ancora più insospettabile.
Ma c’era un fatto più sconvolgente. Cose da fanatici, complottisti, bufale da riempirci il web. Così dicevano. Tanja sollevò il capo, ora senza sforzo. Si trovò di fronte il musetto fradicio di un ratto: le sbucava dallo sterno, squittendo nella poltiglia ch’erano stati i seni. Il ventre, più sotto, era una sacca vuota. Tornavano, sì. Era vero. Chi soffriva tanto, morendo, tornava.
Si liberò maciullandosi le dita, sciolse l’altra mano e se la ficcò tra le gambe spalancate, strappando i punti con cui Elia l’aveva cucita. C’era un grosso fermacarte, sulla scrivania. Gli avrebbe spaccato la testa, ma senza farlo patire. Era pur sempre suo fratello.