Egregio Padre
Sono profondamente rammaricato e addolorato per non essere riuscito a conferirti, come giustamente hai ribadito tu più volte, belle soddisfazioni. Ho trentacinque anni, e in questo poderoso e robusto arco di tempo, non sono stato capace di dare una forma alla mia becera ed effimera esistenza: utilizzando il tuo inappuntabile linguaggio posso ben dire, con grande disprezzo verso la mia squallida persona, di non avere mai concluso nulla di buono nella mia ridicola vita. Il tuo ragionamento non fa nessunissima piega perché sono i fatti a parlare e non solo le parole e la via empirica dimostra, senza dubbi o fraintendimenti, che sono un uomo senza qualità. L’uomo senza qualità è colui il quale non riesce a prendere una posizione ben distinta e ferma nella società: mi ritrovo, in modo vergognoso, a non avere un lavoro più o meno stabile, una mia propria casa, una mia famiglia, un mio specifico ruolo che mi distingua in questo vivere sociale che non ha mai fatti sconti a nessuno. Sono ben conscio di essere la perfetta rappresentazione e carnificazione del più totale e desolante niente. Sono un niente, uno zero: lo zero è un numero tondo, sferico, circolare ma al suo interno c’è un vuoto d’essere, un nulla appunto.
Non guadagno, non ho uno stipendio normale come tutti gli altri, non un posto decentemente rispettabile. Capisco che per un padre tutto ciò costituisca una delusione a dir poco cocente; del resto fin dall’inizio della mia informe vita tu mi hai apostrofato come un parassita, un incapace, un fannullone, come uno che non vuole lavorare o fare niente tutto il giorno a differenza degli altri che si davano (e che si danno) da fare per sistemarsi ed assumere un preciso, fiero ed accettabile ruolo nella realtà in cui viviamo. Non posso che non essere d’accordo con te e con la logicità delle tue parole cristalline proprio in quanto esse, come già anticipato, trovano pieno riscontro nella fatticità dell’esistenza.
Ho provato più volte, come giustamente pretendi, a sistemarmi ma non ci sono mai riuscito. E ogni giorno faccio scorrere tra le mie ammuffite dita la sabbia amara del mio cronico insuccesso.
Gli inglesi direbbero, con il loro pratico ed efficace linguaggio: “the show must go on”. Il gioco è finito, l’arbitro ha fischiato decretando la fine della partita. Ed io, distinto padre, mi sento, a tutti gli effetti, un giocatore fallito: un giocatore che ha
mostrato la sua patente e clamorosa sconfitta in ogni reparto della vita.
Mi spiace vivamente tu abbia in casa un buon a nulla o, come direbbero i pittoreschi spagnoli, un gandul come me che non ti ho dato mai il privilegio di camminare a testa alta davanti agli altri ed esclamare: - Ecco questo è il figlio di cui mi compiaccio -. A questa mia età, come tu evidenzi in un modo impeccabilmente realistico, le persone, con la mia stessa dicitura anagrafica, hanno tutto ciò che io non ho mai avuto e si può dire che, tra un po’, avvieranno le pratiche per la pensione mentre io non otterrò neanche quella minima e, come la tua linda saggezza intende dimostrare, tra un po’ mi ritroverò ad essere un barbone. Almeno un ruolo lo avrò ottenuto nella vita: quello del barbone sempre ammettendo che sia capace di vestire quegli abiti giacché, dato il mio essere miserabile, c’è il rischio che possa tramontare l’idea del barbone.
Distinto Padre sarei voluto essere come te: coraggioso, mai pavido, forte, lavoratore indefesso, stacanovista nella vita mentre con me la natura, forse con la mia complicità, non è stata altrettanto generosa. Ora sono un semplice e reietto malato mentale che sta concludendo i conti con la vita. Caro Padre per vivere ci vogliono le proverbiali palle ed io, le palle, non le ho mai avute almeno che non mi crescano in questo lasso di tempo. Proprio in virtù di questo avrei dovuto fare quel che era ed è più giusto e logico fare in questi frangenti: andarmene in punta di piedi e farla finita. Ma mi manca finanche l’audacia di compiere ciò che è buono e giusto perché non sono stato mai un uomo ed attendo che sia l’arbitro a fischiare la fine della partita e auspico che questo fischio non si faccia attendere troppo: non mi servono i minuti di recupero, non so cosa farmene; anche perché, nella mia infausta vita, c’è pressoché niente da recuperare.
Io spero di non averti rubato tempo o infastidito ma queste cose avrei comunque voluto dirtele perché l’arbitro potrebbe fischiare da un momento all’altro.
Prima che giunga quel fatidico fischio, Carissimo Padre, volevo dirti che le cose sono fatte per essere compiute una volta per tutte e, visto che la bacheca della mia vita ne è quasi priva, ti chiedo solo di stare calmo e di lasciarmi lavorare...
- A Vitto’ - intervenne energicamente un uomo con un indistinguibile accento romano e con una divisa celeste chiara - e basta con ste lettere e ste recite... ogni santo giorno la stessa storia. Piuttosto vien a magna’ che te se fredda tutto.
- Lasciatemi stare, oggi arrivo a trentacinque lettere e devo finire il lavoro con mio padre altrimenti la mia vita rimarrà incompiuta - urlò il ragazzo in preda ad un delirio.
- Alva’ vieneme a da’ ‘na mano lo portiamo in infermeria così se calma un po’.
- Poraccio sto ragazzo - disse l’uomo al collega - il padre lo ha infilato in psichiatria e da quel giorno se mette a scrive’ lettere dicendo che devono arrivare a trentacinque per essere finite.
- E perché? - domandò l’altro sbigottito.
- Perché c’ha trentacinque anni e poi la sua testa gli dice che alla trentacinquesima lettera, che sarebbe quest’ultima che ha scritto, lo deve da squarta’.
- E se lo facesse?
- Ma che dici Alva’ da sto ragazzo neanche un prete ce vene. Le uniche persone che vede semo io e te - disse l’uomo quasi immalinconito dal triste destino di Vittorio.
Dopo essersi calmato Vittorio fu accompagnato nella sua stanza; una volta entrato si diresse verso l’ampio e possente armadio della sua scarna stanza.
Vittorio aprì l’armadio con la mano tutta tremante: ad accoglierlo c’era il padre incerottato, con le mani e le caviglie ammanettate.
- Che c’è papà ti sono mancato? Lo sai che oggi è un gran giorno: finalmente potrai vedere come, tuo figlio, nella vita una cosa l’abbia raggiunta - disse al padre che continuava a dimenarsi come poteva con gli occhi completamente sbarrati ipnotizzati dal terrore.
- Vedi papà, adesso siamo finalmente soli, nessuno verrà a disturbarci.
Vittorio prese un grosso coltello affilato dal tavolo della stanza e senza troppi preamboli iniziò ferocemente ad infliggergli una coltellata, poi una seconda, una terza, una quarta, una quinta fino ad arrivare a trentacinque pugnalate. All’ultima tremenda pugnalata il cuore del padre sbalzò fuori dal petto; un grande topo, spettatore interessato del macabro avvenimento in un angolo della parete, si precipitò verso il cuore ancora pulsante: lo divorò in non molti minuti.
Ora tutti, proprio tutti, potevano osservare che solo lui era l’artefice di quel piano raccapricciante e proprio tutti potevano rendersi conto di come finalmente Vittorio almeno una cosa nella sua vita era riuscita a portarla a termine.