I cessi dell'autogrill puzzavano di urina marcia.
Ermes Lenzi fissò lo specchio. Occhiaie, barba, pancia cascante: il riflesso di un camionista con troppi anni e chilometri alle spalle.
Sciacquò la faccia, entrò in un gabinetto per svuotare le budella dei panini ingurgitati durante la giornata di lavoro. Nient'altro che cemento, auto, guardrail, sonno, svincoli e svincoli che portavano ad altri svincoli e a nessuna meta.
La tavoletta gelida gli strappò una bestemmia. Sollevò gli occhi verso le piastrelle e notò la scritta. Caratteri rossi tracciati in una calligrafia sghemba:
Non c'è fuga dalla strada
dal monossido, dal catrame,
eterna lamiera, chiama il numero,
diventa parte di questo reame.
«Ma cosa cazzo?» sussurrò con una smorfia. Il numero di cellulare sotto la poesiola era il suo. Lo rilesse più volte.
Sì.
Il suo.
Un errore.
O uno scherzo di qualche amico camionista.
Ma cosa significavano quelle parole?
Rilassati. Caga. Torna sul camion. Cento chilometri e anche oggi è fini
La vibrazione del telefono nella tasca dei jeans calati alle caviglie. Afferrò il Nokia, rispose senza guardarlo. «Sì, pronto?»
«P-Pronto...»
Una voce maschile. Qualcosa nell'intonazione gli scagliò un brivido lungo il collo. Ermes captò in sottofondo il rombo di un motore. Una radio. L'uomo stava guidando.
«Chi parla?»
«Be', io, mi scusi... Ho letto la poesia nei bagni di un autogrill e... Niente, mi ha incuriosito, mi si è piantata in testa e così»
«Stop, stop», tagliò corto Ermes. «Non so cos'è 'sta stronzata e non voglio essere disturbato». Lanciò un'occhiata alla scritta, a disagio; poi, abbassando il cellulare per terminare la chiamata, guardò il display.
Sullo schermo c'era il suo numero. Restò a fissarlo imbambolato, senza capire.
«Pronto? È ancora lì?» domandò la voce dall'altra parte.
Sollevò il telefono all'orecchio. «S-sì. Non capisco, lei ha il mio stesso numero...»
«Il suo numero?»
«Sì. Ma lei chi è? Dove?» Non finì la frase. Senza sapere perché, fu colto da un tremendo attacco di panico.
«Sono un camionista», disse l'altro. «Sto guidando, sa, ho chiamato anche per ammazzare un po' il tempo. Mi chiamo Ermes Lenzi, mi spiace di averla disturb»
Interruppe la chiamata reggendo il telefono come se fosse una tarantola, uscì dal gabinetto, un capogiro, affrontò lo squallido corridoio che portava al cuore dell'autogrill.
Superata la porta a vetri si diede dello stupido cacasotto, cominciando a rifiatare tra pile di CD e Grisbì.
Eppure la voce sembrava proprio la sua...
Si guardò intorno.
Nessuno.
Gridò.
File di scaffali ingombri di corpi maciullati s'estendevano all'infinito. Un moderno dedalo di carne senza uscite.
Fuori, oltre le vetrate, il cielo bruciava di vortici scarlatti; nuvole nere s'inseguivano come cadaveri decomposti in un fiume in piena.
Il telefono squillò di nuovo.
«Pronto?» chiesero gli Ermes Lenzi.
Rispose il fragore di lamiere che s'accartocciavano, e un lamento agghiacciante che avevano già udito prima dell'ultimo svincolo.