Due sottili lame di luce fendono l’oscurità della notte, futili armi di cavalieri che combattono una battaglia persa, perché tempo un istante e le ferite del buio si rimarginano. L’uomo al volante vede soltanto la luce dei fari della propria automobile, che sfreccia a velocità troppo elevata anche per una strada così poco frequentata. I significati simbolici gli sfuggono, tuttavia potrebbe anche apprezzarli. Egli conosce bene sia il significato del combattere le battaglie perse, sia il percorso di quella particolare strada, pertanto rallenta giusto un istante prima del cartello che segnala una svolta pericolosa. Senza comunque riuscire a evitare l’impatto immediatamente dopo la curva cieca.
I fari inquadrano appena per un istante una figura ferma in mezzo alla strada. Poi un’ultima e disperata frenata a ruote bloccate, con infine l’inevitabile urto di lamiere contro carne, quando entrambe riconoscono la legge della fisica per cui non ci possono esistere due corpi nello stesso spazio e nello stesso momento. L’urto è violento per entrambe, ma se anche le lamiere del cofano si deformano, è comunque la carne ad avere la peggio: nell’impatto, la figura colpisce il cofano, quindi viene rimbalza contro il parabrezza e infine rotola via come una bambola di pezza scagliata da un bambino crudele oltre il retro dell’automobile.
Rimane un solo faro a illuminare il percorso, uno dei cavalieri ha già rinunciato all’impresa, mentre l’altro è talmente attonito da rimanere immoto, smettendo infine di mulinare la sua spada di luce. Un sottile filo di fumo si solleva dal radiatore sfondato, mentre l’odore di gomma bruciata aleggia ancora pesante nell’aria. Il guidatore rimane per qualche istante così, fermo a fissare la strada dall’altra parte del parabrezza, attraversato ora da una nuova e profonda ragnatela di crepe, perché a stento ha retto a un così terribile impatto.
“Ho ucciso qualcuno”, si ripete il guidatore mentre dalle casse dell’autoradio continua impassibile a suonare l’album Dead End Kings dei Katatonia. La sottile ironia del suo stesso stato catatonico gli sfugge fino a quando, riprendendosi dalla propria condizione di statuaria immobilità e dall’inespressività emotiva davanti all’accaduto, slaccia la cintura di sicurezza e scende dall’automobile, dimenticandosi perfino di spegnere quella maledetta autoradio, la cui musica seppure velata di malinconia è comunque inadatta al dramma concreto e immediato.
L’uomo si regge su gambe malferme e si trascina verso il retro dell’automobile. Il cuore è ormai lanciato al galoppo, il battito gli rimbomba nelle orecchie ben più veloce del ritmato lamento musicale proveniente dall’autoradio. Respira come se avesse corso per centinaia di metri, tanto gli costano quei pochi e piccoli passi, mentre constata con orrore che lì dietro tutto ha assunto un inquietante colore rosso.
Si accorge poi con sollievo che la tonalità deriva dalle luci posteriori dell’automobile, perciò quello che vede non è tutto sangue. Si avvicina ulteriormente alla figura esanime, ancora un piccolo passo alla volta, ma chiedendosi ora se dopotutto non potrebbe aver investito un qualche animale. Forse un cinghiale. Chi mai avrebbe potuto o dovuto avventurarsi per quella strada a piedi, da solo e nel bel mezzo della notte? Di certo comincia a nutrire seri dubbi sulla natura umana del corpo sull’asfalto, che ancora non riesce a distinguere bene. Inoltre, è convinto di essersi scontrato con una figura dalla postura eretta: poteva forse essere stata un orso, la creatura investita?
I piedi quasi si muovono contro la sua volontà. Si trova ormai a circa tre metri quando la creatura emette un primo ringhio raggelante, quindi scuote l’enorme testa come a volersi scrollare di dosso un pensiero fastidioso. Il muso è quello di un lupo... di un grosso lupo. La creatura, emettendo un nuovo e terrificante verso, si solleva sulle zampe posteriori, rivelando infine la sua natura di incrocio impossibile tra l’antropomorfo e il ferino.
Ma il vero umano, il guidatore dell’automobile, riesce a sopprimere il naturale istinto di fuggire di fronte a morte certa. Rimane a fissare il mezzo umano, il licantropo, che ormai si staglia furioso in tutta la sua terribile bestialità ululando alla luna la propria terribile furia. La preda si mantiene ancora immobile, quindi l’essere uscito dall’incubo rimane in un certo senso perplesso: la vittima deve fuggire, per dare un senso alla caccia. Anziché balzare addosso all’uomo, si avvicina con fare quasi circospetto, ringhiando sommessamente.
L’uomo ha tutto il tempo di incrociare lo sguardo del licantropo, restituito da occhi di un luminoso verde smeraldo. Mentre la mostruosità si trova ormai a meno di due metri da lui, riesce soltanto a domandarsi perché non abbia gli occhi di un rosso rubino, come il demonio stesso... perché così dovrebbe essere. Quel verde è invece così rassicurante, gli ricorda tanto una persona che si era sforzato di dimenticare. Forse è soltanto suggestione, forse è realmente impossibile scorgere un particolare simile in piena notte... eppure mentre il licantropo si trova ormai a un metro da lui riesce soltanto a pensare ai suoi occhi... a perdersi nei ricordi.
“Già una volta mi hai conquistato il cuore”, sussurra con un filo di voce. “Ora sei tornata a riprendertelo”. E non si rivolge alla bestia infernale, bensì a una persona reale dagli stessi occhi, amata tanto tempo prima... a una persona di cui non conosce le attuali sorti, pur senza essere mai riuscito realmente a dimenticarla. La belva gli è ormai addosso, lui ne sente il fetido alito sul viso... eppure l’odore marcio nei suoi ricordi si confonde con il profumo dolce, così come i ringhi feroci diventano bisbigli affettuosi. La bestia è ormai identificata nella persona amata con la quale tempo prima era arrivato al vicolo cieco... e lui ancora una volta accetta la fine della storia con la regalità di un sovrano.
Sempre più perplesso, il licantropo solleva una zampa e lo finisce con insospettabile gentilezza: i suoi artigli hanno il tocco leggero di una carezza, mentre gli strappano il cuore prima di conquistarlo per la seconda volta e di portarselo alle fauci. Gli occhi verde smeraldo hanno emesso una nuova sentenza. Poi il licantropo ulula più forte che mai rivolto verso la luna, anche questa volta sovrastando completamente la musica proveniente dall’autoradio, rabbioso per l’esito così insoddisfacente dell’uccisione, per la paradossale arrendevolezza della vittima che ha rovinato il gusto stesso della caccia, o forse anche per la sua stessa natura che l’ha costretto a uccidere un innocente.
Si allontana dall’automobile, addentrandosi nel bosco, dove la sicurezza e la tracotanza vengono meno. Il licantropo si sente osservato, poco avvezzo a rivestire il ruolo della preda anziché del cacciatore. Si guarda intorno ed è intimorito, avvertendo la presenza di un predatore più forte. Scopre per la prima volta cosa significhi avere paura, ma è questione di un attimo, il tempo di un respiro se rapportato all’eternità, e pure lui cessa semplicemente di esistere.
Un mostro senza nome e senza età, figlio dei demoni dell’oblio, afferra il licantropo. Quando comincia a tirare, la forza dei suoi tentacoli, fatti della stessa materia degli incubi, è spaventosa e irresistibile. La bestia viene infine fatta a pezzi, smembrata in un’esplosione di sangue, carne e ossa: è una fine veloce, eppure allo stesso tempo cruenta e dolorosa, quasi a voler fare da contraltare rispetto alla delicata uccisione di pochi istanti prima.
Il mostro fagocita tutto in un solo boccone, finché della bestia non rimane più nulla fuorché il semplice ricordo; ma è un ricordo destinato anch’esso a svanire presto, sacrificato sull’altare impietoso del tempo, di occhi così assurdamente verdi, i quali non avrebbero più incantato nessuno.
Così il mostro rivendica infine il suo posto al vertice della catena alimentare, tornando al silenzio dell’oblio, nell’oscura tranquillità di un sonno senza sogni, riservata unicamente al predatore supremo.