Tutta la bellezza del suo volto, nonostante fosse attraversato da brevi sussulti, era come se schiarisse il manto scuro della notte.
Anna giaceva al suolo, vicino lo spogliatoio del campo della scuola. I suoi occhi acquosi, ancora vivi, erano persi in una coltre di terrore.
Doveva disputarsi la finale, il torneo di fine anno. I genitori erano venuti apposta, riempiendo gli spalti. Una piacevole attrattiva per quella malinconica periferia, grigia, come i blocchi di cemento scanalato che la componevano.
Doveva esserci una partita.
Doveva.
Un rivolo scarlatto di sangue, colava, rigandole le guance. Mentre intorno a lei purpurei fasci di fibra sorreggevano pezzi di bulbi oculari. Arcate dentali erano ancorate al pavimento, insieme a carni putrescenti popolate da sciami di mosche verdi. Molli carcasse dilaniate, umide e puzzolenti, disegnavano incerti grovigli filamentosi sul pavimento.
Anna singhiozzava, il terrore era riflesso nella sclera, aveva la gola secca, muta.
Clomp.
Clomp.
Qualcosa si mosse, occhieggiando tra le siepi.
«Trovi che non abbia sentimenti?»
Anna non credeva a cosa stava vedendo.
«Maestrina cara sapessi quanto ti desidero. Cosa darei per farti mia, per assaggiarti.»
La voce gracchiante la immobilizzò.
Voltò la testa. Fissò inorridita la smorfia dipinta dal rigor mortis nel volto del piccolo capocannoniere da lei allenato.
Un profondo stupore mitigò un pizzicore intorno al collo. Lo sguardo di Anna divenne vitreo, il non morto sollevò la testa di qualche palmo.
La scrutava, da due impenetrabili fessure.
La giacca marrone s’era imbrattata di sangue, l’orripilante essere non vi badò e con la sua camminata barcollante andò verso il parco. Ciondolava tra irte sterpaglie, quando un improvviso rumore lo fece afflosciare al suolo.
Anna comparve da dietro, digrignava beata, mentre dai suoi affilati denti straripò un vermiglio fiume di sangue.