L'odore nell’ospizio è un misto di cibo avariato, urina e disinfettante, e il viavai delle suore nel salone aumenta il mio smarrimento. Gli ospiti, quasi tutti in sedia a rotelle, sono uno spettacolo di sorrisi sdentati, parole senza senso e grumi di bava giallastra. Un quadro di cigni morti.
Trattenendo il fiato imbocco il corridoio che dovrebbe portarmi alla 413, la stanza dove è stata trasferita mia nonna dopo mesi di ospedale.
La porta si apre con un cigolio sinistro, un rumore che mi penetra la pelle. La scorgo nella semioscurità, una carcassa marcescente coperta da lenzuola luride.
Mi avvicino al letto in silenzio, nella stanza non siamo soli. Sulla parete di fronte scorgo due vecchiacce ricurve. Risatine sommesse.
Nonna. Devo concentrarmi su di lei. Le tocco la spalla, uno spasmo tremendo come risposta. Sollevo il lenzuolo, occhi bianchi che mi guardano, credo, senza vedere. Bulbi striati da vasi sanguigni sul punto di esplodere. Bisbiglio un come stai che sa di follia, e di rimando percepisco un soffio implorante, sporcato da labbra coperte di piaghe. Fame.
Un tonfo. Una delle vecchie si contorce sul pavimento. Annaspa verso di me.
Voglio andarmene. Mi giro verso la porta e sto per uscire, ma qualcosa di umido mi serra il polso: puzza di sangue infetto, la mano della nonna. Le unghie si piantano nel mio braccio prima di staccarsi dalle dita imputridite.
La porta si spalanca. Una suora enorme, senza collo, accende la luce. Ha il grembiule lordo di sangue e un machete in mano. È l’ora del pasto.
Mi scaravento su di lei e le pianto i canini sulla guancia, proprio come mi ha insegnato la nonna. Se vogliono la mia carne dovranno sudarsela, e una cosa è certa: io ho denti più buoni.