Spalancò gli occhi, ma quello che vide era offuscato come da una spessa nebbia. Avanzò incerto sporgendo in avanti le braccia per non urtare eventuali ostacoli. E per un istante ebbe paura, o almeno chiamò “paura” quel sentimento che gli stava scivolando sul corpo. Sapeva che doveva andare avanti, era l’unica consapevolezza che riusciva a ricordare nel buio della memoria in cui si era risvegliato. Ancora qualche passo e forse sarebbe riuscito ad acquistare forza e sicurezza. Poi, improvviso ed accecante, il lampo del ricordo del sorriso di lei. E quel ricordo infuse in lui una nuova energia. Cercò di ricordare dove potesse trovarla, dove potesse raggiungerla. Continuò a camminare, sorpreso di non incontrare nessuno sul suo cammino. La pioggia aveva formato pozzanghere fangose che calpestò strascicando i piedi. Imboccò indeciso una via laterale. E quando vide il palazzo rosa che si stagliava davanti a lui, sentì che era vicino. Era vicino a lei: ancora pochi passi e avrebbe rivisto quei capelli castani sciolti sulle spalle che lo facevano fremere quando ondeggiavano al vento, avrebbe respirato il profumo di lei, quel lieve aroma di miele e gelsomino, che gli faceva sempre pensare alla primavera e al sole.
Era davanti alla sua porta, non aveva dimenticato. Era sicuro di questo almeno. Ordinò alla mano di bussare. Ma stranamente l’arto non obbedì all’ordine. Rimase impacciato davanti all’uscio, dubbioso sul da farsi. Nemmeno le parole uscivano dalla bocca.
Poi lei aprì. Il suo sguardo triste lo ferì prima ancora del colpo che lei, decisa, gli inferse alla testa. Lei richiuse l’uscio, posò lentamente il martello sul tavolo. E alla madre che cercava la normalità preparando la cena, disse che lui era tornato, era stato morso, era morto ed era tornato.