Non c'è nulla da mangiare e il vecchio sanatorio, quel dedalo inscatolato di mattonelle rotte, non è più un buon nascondiglio. Sono dappertutto, lo sento. I fruscii tra gli angoli, i gocciolii irregolari dei sifoni corrosi mi snervano. Non sono più lucido. Qualche neon frigge, passi. Giro la testa a scatti in tutte le direzioni. Mulino i bulbi graffiati ma non afferro la provenienza, forse ho margine. Morire di stenti o morire nel sangue è un dilemma solo per chi specula sull'amaca, io devo uscire da qui. Ingoio un versaccio, non devo richiamarli. Mi inabisso tra i corridoi. Il frastuono della pioggia battente è più forte, potrei essere vicino al perimetro. Crampi, è da cinque giorni che non mangio. Un soffio gelido mi galvanizza, quel che rimane di un piccolo ambulatorio si piega in una veranda sulla sinistra: è aperta! Tra il grigiore argentato dalle gocce distinguo il canale, posso farcela. Risalire il canneto negli argini è faticoso ma gli steli infangati irrorano la mia sagoma rendendola indistinguibile; mi permetto un ghigno isterico, breve e idiota. Urla, clangori.
Sono vicini? Sono distanti? Qualcuno mi ha visto? Quanti sono? Devo correre, lo sciaffettìo nella melma copre l'affanno. Crepitii di rami in lontananza, non si fermeranno finché non faranno strazio di noi. Non ne avrò per molto ma finché sono vivo posso ancora scegliere come finirla. Mi infilo quatto nell'ovile per ripararmi. Che sollievo quel tepore di bestie! Non mi sbaglio sul singhiozzo sotto il pagliaio. Piange e fa chiasso, mi insegnarono che il solletico avrebbe funzionato ma non ho più pazienza. Quando gli stacco la testa per abbeverarmi dei fiotti vermigli smette. Scaravento alla parete quell'inutile coperchio peloso, inveisco. L’ennesimo scempio li indispettirà, ma sono rinvigorito. Vermi! L'ultimo della mia razza non vale un pugno di voi miseri umani.