Nel 451 dopo Cristo, ci fu una sanguinosa battaglia tra Romani ed alleati contro Unni ed alleati. La storica battaglia avvenne presso i Campi Catalaunici, in Francia. Si parla di oltre trecentomila morti da entrambe le parti. Gli Unni erano un’orda furiosa e sanguinaria di circa sei-settecentomila uomini; un’orda con una cavalleria invincibile. Gli Unni erano orribili solo di vista. Alcuni si deformavano il cranio con dei cerchi di ferro. Si diceva che passassero la maggior parte del tempo sui loro cavalli. Uccidevano chiunque senza pietà e spesso con sadico appagamento.
I Campi Catalaunici erano una vasta pianura intorno a CHẬLONS, estesa per centocinquanta miglia di lunghezza e cento di larghezza. Oggi la regione si chiama CAMPAGNA. Ai primi di settembre del 451 dopo Cr., la pianura aveva delle ineguaglianze di terreno e c’era un’altura che dominava il campo di Attila. Qualche giorno prima della feroce battaglia, il giovane Turrismondo al comando dei Visigoti, alleati dei Romani s’impossessò della strategica altura dominante il campo nemico, scacciando gli Unni che cercavano di salire dalla parte opposta. La vasta pianura era coperta dalla nebbia che andava diradandosi col passare del giorno, svelando gli alberi di quercia e le siepi, oltre ai rivoli d’acqua che numerosi, solcavano obliquamente il piano.
Il giorno prima della battaglia, Attila che era molto superstizioso, ordinò dei sacrifici umani. Tra le capanne reali, soldati unni seminudi armati di lancia, circondarono a corona un vasto spiazzo. C’era una specie di raduno con un individuo barbuto con una lunga tunica bianca ed altri che lo fiancheggiavano con dei vassoi dorati e delle coppe da cui fuoriusciva del fumo, come da un incensiere. C’era un grosso falò in fondo ed una specie di lastra bianca tonda che poteva essere marmo. La lastra marmorea stava al centro dello spiazzo. C’erano tre vecchi con le tuniche bianche e dalla parte opposta, uno scimmione, orribile a vedersi, seduto su una specie di massiccia sedia, ricoperta di pelli. Aveva la barba rossiccia e lunghi capelli incolti fin sopra il dorso. Era Attila, il re degli Unni, il flagellum dei. In mezzo agli umanoidi unni più simili alle scimmie, la tonda lastra di marmo. Attila era preoccupato per le sorti della battaglia. Pur muovendosi in uno spazio pianeggiante, la sua cavalleria invincibile non aveva molta libertà di manovra, avendo il nemico Turrismondo occupato l’altura sul fianco sinistro.
Il paesaggio era fatto di basse colline ed immerso in una sottile nebbia. C’erano gigantesche querce secolari, rivoli luccicanti e pozze d’acqua.
I Romani si erano schierati a formare una compatta barriera, pronti a chiudersi a testuggine dietro i loro scudi quadrati. Davanti allo schieramento romano, gli alleati avevano disposto numerosi trabocchetti ricoperti di terra, grossi tronchi d’alberi sghembi e piazzato lance infisse di traverso nel terreno. A capo dei Romani, c’era il Superiore Ezio. Attila osservava i nemici, apparendo molto nervoso, poco fiducioso delle truppe alleate. Il sacrificio umano doveva essere fatto per capire i segni del destino. Attila voleva essere certo della vittoria.
I prigionieri erano stati legati per le braccia e spinti verso la piastra di marmo, o meglio, verso l’ara marmorea dove si doveva compiere il sacrificio. I prigionieri erano per lo più contadini romani, catturati dagli Unni nelle loro scorribande. Tre massicci Unni, con i colli da gorilla, armati di lancia, spingevano i prigionieri piangenti e disperati verso l’ara sacrificale. Un quarto scimmione maneggiava un’ascia ed un coltello. Lo scimmione guardava con occhi truci i quattro giovani destinati al sacrificio, coi corpi piagati e seminudi. Erano da sacrificare al cospetto dei sacerdoti ed aruspici che avrebbero rivelato ad Attila gli esiti della battaglia. Furono fatti piegare all’indietro, sul dorso in modo da poggiare la testa sul masso quadrangolare. Uno dei tunicati si avvicinò ad ispezionarne le arcate dentarie per verificarne l’età giovanile. Dopodiché furono sgozzati uno a uno, sopra l’ara di bianco marmo. Urla atroci e disperate dei giovani martiri sgozzati. Il sangue raccolto in un secchio nel quale una vecchiaccia camusa faceva ruotare un mestolo per evitarne la coagulazione. Il sangue sarebbe servito da libagione, mescolato col latte di vacca. I tunicati ordinarono che aprissero l’addome delle vittime per osservarne le viscere. Un Unno dal torso nudo e con un coltellaccio, con accortezza cominciò a squarciare l’addome dei prigionieri sgozzati. Cominciò ad incidere partendo da sopra il pube, risalendo con la lama affilata fino allo sterno. Ciò fatto, raschiarono le ossa di gambe e braccia. Con facce severe e pensose, i sacri tunicati osservarono tutti i particolari degl’intestini che si contorcevano come la rabbia delle vittime, appena sgozzate. Si gonfiavano di aria e sbottavano. Erano segni premonitori. Come un demonio dalla pelle gialla, Attila osservava sia gli organi sviscerati, sia le facce dei sacerdoti ed indovini che si erano chiusi in consulto. Subito dopo, i sacerdoti e gl’indovini predissero la sconfitta e la morte del principale avversario di Attila. Il re unno se ne andò via soddisfatto, tentennando la testa come un caprone.
Il mattino dopo, la sterminata cavalleria unna si allineò a riempire il vasto piano caliginoso. L’Asia premeva sull’Occidente. Gli Unni formavano una massa d’urto di oltre cinquecentomila soldati. Il superiore Ezio era stato tentato di trattare con Attila, ma gli alleati non volevano e neanche i Romani, conoscendo la crudeltà del nemico. C’era la speranza che dall’Italia arrivassero nuove legioni,
Il generale Ezio stava a cavallo con un vessillifero al fianco che brandiva una lancia sulla quale sventolava nel vento del primo mattino un dragone imperiale, purpureo e minaccioso. La fanteria occupava parte dello stretto pendio, ai piedi della collina dov’erano Ezio e lo Stato Maggiore. Le trombe squillarono all’unisono. Squadroni di cavalleria, di corazzieri e di arcieri giunsero da destra e da sinistra, circondando il Superiore Ezio, pronti a proteggerlo fino allo stremo.
Un tribuno che credeva ancora nei vecchi dei, giurò di aver visto prima che la battaglia iniziasse, la dea velata Nemesis, figlia della Notte, sorella della Morte. La nera dea stava nel mezzo degli opposti schieramenti. Sulla nebbiosa pianura prese a soffiare il vento. Negl’intervalli tra una ventata e l’altra, immense, bianche colonne di silenzio scendevano dai cieli. Nemesis scagliò l’invisibile lancia contro le armate degli Unni, segno che i Romani avrebbero vinto.
Ebbe inizio la battaglia. La parte più consistente dell’esercito alleatosi coi Romani erano i Visigoti, al seguito del loro capo Turrismondo. C’erano anche i Leti, gli Armonicani, i Bretoni, i Sassoni, i Burgundi, i Sarmati (o Alani), i Ripuani ed i Franchi, seguaci di Meroveo. I Franchi insieme con i Visigoti formavano un nutrito gruppo, molto agguerrito. Chiusi e compatti, dietro i loro scudi rettangolari, i Romani occupavano la parte centrale, quella che doveva sostenere l’urto più devastante della cavalleria unna. Al comando dei Romani, c’era Ezio che stava nella retroguardia e seguiva l’evolversi degli eventi. Nella sua parte centrale, l’esercito unno aveva la possente ed invincibile cavalleria e dietro a seguire, come al solito, i fanti che avanzando avrebbero completato le devastazioni inferte dall’urto della cavalleria. Un’altra parte dei Franchi non seguaci di Meroveo, si erano alleati cogli Unni e si trovavano spostati sul lato sinistro, insieme con Eruli, Turingi e Burgundi. Sul lato destro, c’era Ardarico al comando dei suoi Gepidi e gli Ostrogoti al seguito dei due fratelli di Ardarico.
In piedi sulle groppe dei cavalli ed in perfetto equilibrio, gli arcieri unni scagliavano frecce che colpivano quasi sempre il nemico. Si diceva che ogni guerriero unno formasse un’unità indissolubile: il cavaliere ed il suo cavallo. Se moriva l’uno, sarebbe stato perso anche l’altro. Tutto il piano, per l’intera estensione in lungo ed in largo occupato dai cavalli e cavalieri unni che al galoppo, in furiosa corsa, facevano un fragore infernale. Un ciclone si abbatté sugli eserciti alleati e sul morente Impero di Occidente. Il cielo coperto ed oscurato dagli strali. I Romani chiusi a testuggine. Tutti conoscevano lo scarso valore dei Romani, ma dal filmato si vedeva che non indietreggiavano. I Romani sapevano che se la battaglia fosse andata persa, tutta la Gallia, l’Italia e la Spagna sarebbero state distrutte coi loro abitanti. La Britannia con le due legioni ivi stanziate, tagliata fuori.
Attila non aveva pietà dei vinti. La crudeltà del capo unno fu stimolo a resistergli fino allo stremo. Sull’unica altura dominante il piano ed occupata dai Visigoti, i Romani avevano piazzato grosse catapulte, con cui lanciavano sulla cavalleria nemica anfore piene di liquidi infiammabili e massi enormi. Davanti alle legioni, c’era una fila di arcieri e tra questi e le legioni altre catapulte e balestre a multipla gittata. Il primo attacco unno fiaccato dalla gittata delle catapulte, dalle frecce degli arcieri e dai proiettili delle balestre. La cavalleria unna si allargò a ventaglio, ma molti caddero dai cavalli, feriti a morte. Attila lanciò la seconda ondata di cavalleria, diretta ad incunearsi tra le truppe romane e quelle dei Franchi. I Visigoti scesero dall’altura, attaccando di lato il nemico che cercava il varco tra Romani e Franchi. Il capo dei Visigoti, Turrismondo uccise molti Unni, ma fu circondato. Cedette il lato destro tra le legioni romane ed i Leti, i Ripuani e pochi altri alleati. Si formò un cuneo che la cavalleria unna tendeva a divaricare. Però, le ali degli alleati mantennero il campo. Nell’aspra lotta isolato dai suoi, fu colpito a morte Turrismondo spintosi troppo in avanti, nel fianco del nemico. Attila seppe con gioia che il suo principale nemico, il re dei Visigoti era morto. Si erano avverate le profezie dei sacerdoti ed indovini. Accavallamento d’immagini atroci, di urla disperate e nitriti di cavalli sventrati. Romani che mozzavano la testa dei nemici, sollevandola ben in come un trofeo macabro. Unni che da sopra il destriero al galoppo, con mira incredibile trafiggevano al collo i nemici. Al tramonto, apparì chiaro che i Romani ed alleati - in particolare i Visigoti ed i Franchi - avevano resistito alla cavalleria unna, frazionata alla fine in molti gruppi e falcidiata. Attila si ritirò negli accampamenti, sperando di poter attraversare al più presto il Reno, insieme coi sopravvissuti. Nella memorabile battaglia, ci saranno sul terreno oltre trecentomila morti. Le maggiori perdite tra gli Unni – circa un terzo – ed i Romani per circa il 50%. I Franchi alleati dei Romani, avevano subito ingenti perdite, ma saranno consapevoli del loro effettivo valore. Osservando lo spettrale campo di battaglia, pieno di cadaveri trucidati, di cavalli sventrati e di nemici decapitati o mutilati in modo orrendo, un centurione romano inciderà sul posto una specie di lapide con la seguente frase che tradotta in italiano, suona così:
CAMPI CATALAUNICI REGNO DI NEMESIS E DI ADE
IL VALORE DEI ROMANI HA SALVATO L’IMPERO.