Le urla della mamma sono assordanti, come sempre. Babbo la batte tanto forte
che i colpi rimbombano nel vuoto della stanza. Non voglio sentire. Mi premo
forte il cuscino sulle orecchie, ma è tutto inutile. Lui non grida, non lo fa
mai. Mio padre è quello che la gente considera una brava persona: è un
lavoratore onesto, non beve, non fuma, la domenica mattina va in chiesa, la
notte si diverte a picchiare la mamma. Non ce la faccio più. Un tempo ho provato
a cantare, prima di addormentarmi, cercando di coprire il suono delle botte. Non
è servito e ho smesso.
Soffoco; apro la finestra. La leggera brezza mitiga il caldo estivo. Ma sento
ancora la sofferenza della mamma; è insopportabile.
Vivere in campagna non mi piace. Magari, se fossimo in città, babbo non la
picchierebbe; o, forse, lo farebbe più piano. Mi avvicino al letto e raggruppo i
pupazzi sotto il lenzuolo: chi sa se capirà che me ne sono andata. Non mi
interessa. Scavalco la finestra; mi volto solo un attimo per vedere la sagoma
sotto le coperte, illuminata a stento dal chiarore della luna. Mi metto a
correre scalza e in vestaglia sull'erba; non mi fermerò finché avrò fiato.
Scappo da quell'inferno, scappo da quelle urla, scappo da quel dolore. Il
frutteto mi accoglie tra le sue braccia: mi nasconde e mi protegge. Scendo per
la valle e sono sempre più lontana da casa. Poi lo raggiungo: l'olivo sorge
solitario in un avvallamento, circondato da erbe selvatiche, margherite e grilli
chiassosi. Sospiro; lo abbraccio.
Sogno di quando saremo libere, io e la mamma; viaggio nella notte sperando
che la fantasia si trasformi in realtà. Lei mi rimbocca le coperte e mi dà un
bacio sulla guancia.
- Ti voglio bene tesoro.
Le sorrido, serena sotto il tepore delle lenzuola. Poi si allontana, fa una
carezza a mio padre e lui prende il suo posto.
- Ti va che ti racconti una favola?
- Grazie babbo, oggi però il principe azzurro lo fai tu.
Mi addormento cullata dal suono della sua voce, roca e calorosa. Il profumo del
dopobarba mi accompagna per tutta la notte, mi avvolge nel sonno e mi protegge.
Ma a circondarmi in realtà è il forte odore delle margherite, che presto si
confonde con una penetrante puzza di fumo. I fiori iniziano a bruciare. Tutto
prende fuoco. Brucio io e brucia il sogno, mio padre, mia madre, la casa e la
campagna. Bruciano anche le fronde dell'olivo.
Mi sveglio madida di sudore, il sole del mattino mi acceca; mi sollevo sulle
ginocchia. Osservo la pianta magra e forte.
- Grazie - Le dico; e non potrei aggiungere altro. Allungo la mano e colgo un
bocciolo, lo stringo al petto. Mi pulisco la vestaglia. Non voglio più tornare a
casa. Sento una macchina passare. Allora mi affretto, finché non raggiungo il
ciglio di una stradina stretta e deserta. Mi siedo e attendo.
Arriva prima il rombo del motore, poi vedo la polvere e infine l'auto. È nera e
occupa quasi tutta la carreggiata. Mi alzo e quella rallenta. Mi affianca; il
finestrino si abbassa e mi si presenta un vecchio con il volto nascosto da
spessi occhiali da sole.
- Ti sei persa, piccolina?
Devo avere un'aria trasandata, cerco di darmi una sistemata ma non rispondo. Non
saprei che dire. Lui alza gli occhiali e mostra freddi occhi grigi.
- Vai a fare colazione in città?
- Sì, - rispondo - ecco vado in città. Può darmi un passaggio, gentile signore?
L'auto sa di pelle e tabacco, eppure gli odori non sono forti ma accoglienti e
piacevoli. L'uomo mi ha detto di mettermi la cintura, per stare sicura. Io gli
ho dato retta. Ha la voce da fumatore, mi ricorda quella di nonno. Mi rasserena,
e non posso fare a meno di ascoltarlo.
- Non esiste momento migliore, nella vita intera di un uomo, che quello passato
nella tranquillità della natura; sai, quand'ero bambino spesso scappavo da casa
e camminavo per tutta la notte; tra l'erba alta e odorosa mi sentivo libero. Ah,
quanto vorrei tornare a quei tempi, quanta spensieratezza. Ero piccolo sai?
Forse quanto te... quanti anni hai, a proposito?
- Dodici.
- Dodici son gli apostoli, dodici le costellazioni e dodici le vite che vivremo
prima di tornare al creatore. Stai vivendo l'età benedetta.
Io sorrido, è più forte di me. Dovrei vergognarmi, lo so. Il riflesso del mio
volto, sporcato da macchiette verdi, è quel che vedo fissando il finestrino. Ma
se lui non gli dà peso, perché dovrei farlo io? Lo sguardo allora si spinge
oltre il vetro: sui frutteti che colorano la mattina; sui greggi che pascolano
disordinati; sugli uomini forti che già lavorano i campi.
Ma non vedo la città, né il suo campanile. Sono sicura che dovrei scorgerla, me
lo ricordo bene il colpo d'occhio dei tetti rossi lontani a valle. Invece il
paesaggio non cambia come dovrebbe, ma torna a essere familiare, fin troppo. Il
cancello del giardino è aperto. Il vecchio mi ha riportato a casa. Allunga la
mano e mi accarezza la nuca, mi parla.
- Tuo padre era molto spaventato stamattina. È una brava persona, non portargli
dispiacere. Va bene, piccolina?
Lui è là, fuori dall'ingresso, braccia conserte. Sorride, sembra tranquillo.
Eppure io lo so, stanotte verrà il mio turno. Stringe forte la mano del vecchio,
ma i suoi occhi freddi sono rivolti su di me.
- Grazie commissario, io e mia moglie eravamo terrorizzati.
***
- Non ti permetterò di farlo!
- Taci, donna.
Tremo sotto il lenzuolo. La chiave della camera non c'è più, non ho difese, non
posso più scappare. Lo schiaffo che babbo rifila alla mamma riecheggia forte nel
corridoio. È qui. Entra sbattendo l'uscio. Sobbalzo mettendomi seduta. Lui getta
una grossa valigia aperta sul letto. Mi minaccia.
- Hai finito di rovinarci la vita, solo il convento ti può salvare!
Guardo disperatamente la mamma, è accovacciata a terra e non solleva lo sguardo.
Lui apre i cassetti dell'armadio e getta tutta la roba alla rinfusa. Quando si
scoccia, chiude con uno scatto la valigia. Mi getta una maglia in faccia.
- Vèstiti.
La macchina corre forte sullo sterrato. Posso vedere la polvere che ci
lasciamo dietro. Non piango e non sono nemmeno triste. Non so come stare, né
cosa pensare. Guardo senza interesse sempre lo stesso panorama. Forse adesso in
città ci arrivo per davvero. Babbo non parla; stringe forte il volante, tanto
che le nocche sono completamente bianche. Poi arriva il primo colpo. Mi dà una
manata sulla testa; non me l'aspettavo e sbatto contro lo sportello. Sono senza
cintura.
- Adesso mi avete davvero rotto i coglioni!
Urla. Forse è la prima volta che lo sento gridare e dire parolacce.
- Tu e quella zoccola di tua madre. Goditi il viaggio, perché non vedrai più la
luce del sole.
Mi batte di nuovo.
- Lasciami stare!
- Non ti azzardare a fiatare!
Mi colpisce ancora e ancora.
- Guarda la strada!
Sbanda e riprende il controllo. Io mi copro la faccia, ma lo vedo. Ha gli occhi
lucidi.
- Perché piangi, babbo?
Si volta verso di me, accelera. Non dovrebbe.
- Dio mi perdoni per averti messo al mondo.
- Fermati babbo, ora! Frena!
***
E ancora mi ritrovo qui, nel cuore di una notte d'estate. La brezza mi dà
sollievo, muove i miei capelli, liberi al vento come le fronde dell'olivo.
Eccoci di nuovo soli, noi due. Abbraccio il fusto. La sua forza mi tranquillizza
ora come sempre. Mi siedo ai suoi piedi, tra margherite e grilli. Le mani
affondano nell'erba fresca. Guardo la luna: piena, chiara, luminosa, amica. Da
qui riesco a vedere tutto. Attorno a me non ci sono più i monti che mi coprono
la vista, ma paesi, stati, persone, animali e cose. Questo è il mio posto, qui
posso viaggiare e scappare da tutto. Fuggire da quella casa, da mio padre e sì,
anche da mia madre. Non tornerò più da loro, mai più. Sopra le radici dell'olivo
posso dormire, posso sognare e vivere davvero per la prima volta. Adesso ho uno
scopo.
Dodici anni, dodici apostoli, dodici costellazioni, dodici vite.
Sorrido al ricordo del commissario. Ogni tanto mi capita di ripensare a quella
mattina, a cosa sarebbe successo se non mi avessero ritrovata. Ora so cosa
passava nella testa di mio padre in quei momenti: fu colto dalla paura che
diventassi come lui. Ma ancora stento a capire perché, da quell'ammasso di
lamiere, ne uscì vivo solo uno di noi.
Quando sento la macchina, saluto l'albero con un'ultima carezza e mi allontano.
Salgo agile tra la roccia e il sentiero tracciato dalle capre. Arrivo sul ciglio
della strada appena in tempo per scorgere la luce dei fari. Mi vedono,
inchiodano. Esce un ragazzo, è alto e barcolla; lo segue la ragazza. È lei a
parlare.
- Bambina, stai bene? Ti sei persa?
- Mi date un passaggio?
- Vai in città?
Annuisco. Lei invece guarda diffidente il suo compagno; in un attimo di
esitazione si morde il labbro. Ma poi si decide.
- Sali allora.
Lui non è d'accordo: - Ma che cazzo me ne frega a me di 'sta qua!
Strascica le parole, rutta. Rientra in macchina e sbatte la portiera.
- Lascialo perdere, ha bevuto un po' - Dice lei, mentre mi fa salire dietro.
L'auto va; litigano e lui a stento guarda la strada buia.
- Sta' zitta! - Le urla, mentre le dà una manata.
- Sei uno stronzo!
- Buona samaritana dei miei coglioni.
- Ma non lo vedi che è una bambina? Coglione!
- Ci poteva pensare il padre.
- Lui ci ha già pensato - Gli dico.
- Ma a te chi ti ha chiesto niente? Ne vuoi anche tu?
Lei mi difende, urla: - Sei un animale!
Continuano a gridare e a non capire; lui a stento riesce a tenere la strada. Mi
dispiace per la ragazza, vorrei spiegarle tutto; ma ormai non c'è più tempo.
Devo agire.
- Manuel devi stare attento.
- Manuel... come fai a sapere il mio nome?
- Sei troppo veloce, rallenta.
- Fanculo, mocciosa! So guidare.
- Arianna, ferma il tuo ragazzo!
Lei si gira, mi guarda e impallidisce. La macchina sbanda.
- Frena!
Glielo ordino, ma non capiscono.
- Frena che qui sono morta io!