E' stato quel ragazzo. Sì. Mi sembra quasi di vederlo. Moribondo. La schiena spezzata, la testa rotta, che mi maledice esalando l’ultimo respiro.
O forse no. Forse è Dio che mi sta punendo.
Una punizione che è beffa. Scherno. Disprezzo.
Cominciò una settimana dopo il fattaccio, quando ormai pensava di averla scampata.
Paolo Bani s’alzò dal letto con una vaga sensazione di malessere, di umidità, ciondolò in bagno e si passò una mano tra i capelli.
Ciocche corvine tra le dita, come foglie morte. Avvertì qualcosa in bocca, sputò nel lavandino. Denti.
Poi caddero le unghie.
Gli occhi prudevano, travolti da un vento carico di polvere e brutti ricordi che soffiava solo per lui.
Fissò il calendario. 23 settembre. Primo giorno d’autunno.
I medici non capivano. Gli esami erano nella norma. Forse un grave disturbo psicosomatico.
Arrivò l’inverno.
Paolo, barricato in casa, completamente glabro, scheletrico, sdentato, gli occhi quasi ciechi, non riusciva a scacciare il freddo.
Gli cresceva dentro, nel midollo, nelle vene, nei più reconditi anfratti del suo corpo.
Poteva muoversi appena. I nervi cigolavano, i muscoli gemevano martoriati da brina invisibile.
Aveva sonno, sempre. Un letargo dell’anima popolato da incubi e rimorso.
Beveva acqua, vomitava neve.
Defecava escrementi congelati tra sofferenze atroci, rimasugli taglienti del cibo che si sforzava d’ingerire.
Tremori, continui.
Nell’alloggio di Bani, riscaldamento al massimo, il termostato segnava 35 gradi.
Il 21 marzo una rada peluria sbocciò sul pube e sotto le ascelle di Paolo. Un accenno di capelli.
Fitte pulsanti alle gengive lo informarono che i denti stavano ricrescendo.
E arrivarono anche le rondini. Nella testa.
Erano sempre lì, giorno e notte; urlavano, cantavano, cinguettavano, frullando le ali leggere sulle meningi, piantando il becco e le zampette nel tessuto molle della materia grigia e della sanità mentale.
Volatili fantasma. Banchettavano coi grassi vermi della sua colpa.
Paolo Bani pensò di costituirsi. O di uccidersi. Ma non ne aveva la forza.
Non credeva potesse peggiorare.
Sbagliava.
L’estate portò piombo fuso sottopelle. Sabbia in bocca, afa e sete inestinguibili. Epidermide abbrustolita, vescicole e piaghe, emicrania pulsante, insolazione perpetua, la pelle della schiena che si staccava rimanendo incollata alle lenzuola intrise di sudore fetido, rovente.
Con uno sforzo immane riuscì a riempire la vasca d’acqua fredda e cubetti di ghiaccio.
S’immerse.
Conforto fugace. Ma avrebbe trovato il sollievo definitivo. Doveva.
Afferrò una lametta, tagliò polsi e caviglie a fondo, troncando tendini e arterie. Non sentì male.
Mentre scivolava nel cremisi del sangue e nel buio del niente, rivide il ragazzo che camminava sul ciglio della strada reggendo una pizza d’asporto.
Il suo SUV che sbandava e lo investiva, scaraventandolo nel fosso.
Il panico, la fuga, il terrore di essere scoperto, il ritorno a casa.
E quella pizza quattro stagioni incastrata nel paraurti, ancora rossa e fumante come una carcassa.