Il treno giunse alla stazione, il vapore sibilava dalle ruote ferrate. Levai il bagaglio dai sostegni nella cabina e scendendo dalle scalette di ferro, mi resi conto di avere viaggiato a lungo. Era un violaceo crepuscolo d’autunno del 1884 quando ritornai nella cittadina natia, dopo quasi vent’anni. Non apprezzavo spostarmi di giorno. Il giorno è sempre così ovvio e definito. La notte, invece, offre scenari insospettabili. M’incamminai alla ricerca di alloggio e scese rapida la nebbia. Ricordai di com’era facile incappare nelle dense nebbie notturne di queste zone dell’Emilia. Non v’era anima viva e i lumi a petrolio parevano flebili fuochi fatui. Mi avvolsi nel tabarro e proseguii a tentoni, nascondendomi il fatto che potevo essermi perso. Notai una luce fioca poco distante da me. Una porta socchiusa. Mi avvicinai e, appoggiandomi al muro scrostato di una casa, decisi di fermarmi per chiedere come raggiungere la taverna. Usai il catenaccio anche se la porta era aperta. Fui sorpreso di incrociare lo sguardo gelido di una donna avvolta in uno scialle nero. S’intravedevano capelli corvini e una pelle colore del marmo più prezioso. Il suo sguardo era torvo e mi affrettai a domandarle la strada per l’ostello più vicino, temendo ch’ella mi scacciasse. La nera donna si fece da parte e, con voce roca, volle ch’io entrassi. Viveva sola. Mi offrì da bere e non smetteva d’osservarmi. Parlai dei miei ricordi d’infanzia trascorsi in paese ed ella annuiva silente, continuando a versare vino rosso da un’antica caraffa di vetro. Mi chiesi quale fosse il motivo della solitudine di quella donna. Disse che avrei potuto riassettarmi in una stanza ch’ella affittava di tanto in tanto ai viandanti e mi accompagnò innanzi ad un enorme letto a baldacchino e l’unica finestra era coperta con un drappo di velluto nero.
Mentre ponevo i miei arnesi sul marmo venato di un comò, ella uscì dalla camera e udii il suono di due mandate al chiavistello della porta. Prigioniero! E cominciai a capire. Normalmente ero preparato, molti avevano tentato di uccidermi o derubarmi ma questa volta mi ero fidato di quel viso delicato, di quegli occhi che mi ricordavano qualcuno. D'improvviso le persiane dell’unica finestra si spalancarono dall’esterno e il drappo nero cadde a terra. La luce del mattino illuminava in modo diretto la stanza. Afferrai uno scranno e dopo alcuni colpi ben assestati, sfondai la porta. Non vedevo bene, il sole mi stava ustionando gli occhi, ma davanti c'era la nera signora con un paletto in una mano e un martello nell’altra. Balzò in avanti e mi trafisse il petto. Io mi piegai verso di lei e, prima di abbassare gli occhi cercando di raggomitolarmi su me stesso, scorsi il suo sguardo vitreo: “Sapevo che saresti tornato” sussurrò. “Riuscirò a fare quello in cui mio padre ha fallito, mostro!”. Povera illusa, voleva uccidermi senza sapere l'esatta ubicazione del mio cuore, e soprattutto che ne possiedo due. Una vera fortuna per un vampiro di razza strigoii come me...