La sindrome dell'arto fantasma

Racconto per il concorso "Premio Scheletri", 2014 - edizione 6

I primi giorni non ci facevo nemmeno caso.
Certo, ero spesso sbronzo, ma l’alcol non riusciva ad annegare quel particolare ricordo. Forse perché non albergava nella mente, ma nel corpo. O meglio, non stava nemmeno lì. Era quello il problema.
Così allungavo il braccio verso la boccia di whiskey e immancabilmente stringevo l’aria con dita immateriali. La bottiglia restava al suo posto, ed io fissavo il vuoto oltre il moncherino che era il mio polso.
Eppure.

 

L’incidente avvenne in fabbrica. Catena di montaggio.
Fu una mia distrazione. Licenziato. Senza indennizzo.
Comunque.
Il mostro di metallo sputacchiò sangue - il mio sangue – nel freddo biascichio delle ruote dentate.
Bloccarono il marchingegno, gli aprirono la bocca, e mi liberarono il braccio dalle sue fauci voraci.
La mano no.
Restava solo un’impalpabile poltiglia di carne e ossa e sangue nelle interiora d’ingranaggi della macchina sazia.
Sepolta così, la mia mano destra, un funerale senza cadavere e una bara di ferro.
Eppure.

Sindrome dell’arto fantasma, la chiamano.
Un nome adeguato.
Fin troppo.
In fondo è ovvio.
La carne muore.
L’anima è eterna.
Storie di fantasmi.
Bu.
Se ci si crede.
Io no.
Eppure.

 

La prima volta fu di mattina, un mese dopo l’incidente.
Un piacevole fremito fra le gambe accolse il mio risveglio. Assaporai quel momento, intimo e spontaneo, mischiando gemiti al fruscio delle coperte, mentre cosciente scandivo l’eccitazione in un calibrato su e giù.
Poi, quasi al culmine del godimento, mi accorsi di avere una mano fra i capelli.
La mia sola mano.
Mi strappai il lenzuolo di dosso e intravidi il mio sesso fremere, rigido, prima di ammosciarsi per il terrore.
E il moncherino che se ne stava lì, dormiente sul pube.
Innocente. Assolto per non aver commesso il fatto. All’unanimità.
Non poteva essere altrimenti.
Eppure.

 

E poi.
Il senzatetto, questuante fino all’irritazione, steso nel vicolo con la testa fracassata. E una tavola di legno scheggiata, chiodi ritorti macchiati di ruggine e sangue, che cade per terra, come dal nulla, lungo il mio fianco.
E poi.
Alice, immobile e muta sul letto, dopo quel suo “Non riesci quasi più a masturbarti, ubriaco e monco come sei, figuriamoci scopare” sputato sulla soglia di casa, bagagli in mano e lo scherno sulle labbra. Alice, il volto gonfio e gli occhi in fuori. E una carezza fantasma alle ecchimosi sul collo.
E poi.
La padrona di casa giù per le scale. Il mio ex datore di lavoro travolto dalla metro.
E il mio braccio proteso in avanti, un gesto senza inizio e fine, come quell’arto, assorbito nell’aria.
E poi.
E poi.
Come fosse solo un incubo.
Eppure.

 

È lei, lo so.
È la mia mano che non c’è.
A volte asseconda i miei voleri. Più spesso i miei istinti. O forse i suoi, mi fingo ad alibi. E fa cose orribili.
Così scrivo queste parole, una penna stretta fra dita invisibili e presto, spero, una pistola. Per esorcizzare suicida questo spettro con piombo e polvere da sparo.
Eppure.

 

La carne muore.
L’anima è eterna.
Storie di fantasmi.
Bu.
Se ci si crede.
Voi no?
Eppure.

Bu.

Matteo Pisaneschi