Carne morta

Tante volte si era fatto beffe della morte, lui che ne era stato un così affascinato cultore. L’aveva vista attraverso uno schermo, letta tramite le pagine dei libri, ascoltata nei testi delle canzoni. In ogni cosa l’aveva banalizzata e ridotta a spettacolare divertimento. La morte era stata uno zombie, un vampiro, un mostro. Sempre sconfitta da comuni mortali, incapace di impensierire più di tanto un bravo cacciatore di demoni.
Si chiedeva adesso cosa lo rendesse diverso da uno zombie, quando i suoi polmoni erano incapaci di respirare. La necessaria ventilazione era garantita da un respiratore. Una macchina lo teneva in vita, tra suoni sinistri che tanto ricordavano orridi esperimenti in laboratori segreti e sotterranei.
Si domandava ancora cosa lo differenziasse da un vampiro, quando la sua sete di sangue umano, caldo e nutriente, doveva trarre perenne soddisfazione. Una sacca di plasma pendeva a poco più di un metro dalla sua testa. La cannula di una flebo, tramite un regolatore di flusso, ne assicurava il continuo rifornimento.
Si interpellava infine su cosa lo distinguesse dal mostro creato da uno scienziato pazzo e dallo stesso malamente assemblato con parti di cadavere. Il suo corpo era percorso da tagli e cuciture, fratture e placche, piaghe e bruciature. Così si era ridotto dopo l’incidente d’auto: un pezzo di carne morta, rifiutato persino dalle fiamme redentrici.
Tutte queste domande esigevano una risposta. Lui pretendeva soltanto la morte, la più semplice delle liberazioni. Ma riuscì a vedere la luce in fondo al tunnel soltanto per un attimo, l’illusione di un istante perfetto, quando il suo cuore cessò di battere. Il monitor cardiaco emise un prolungato segnale sonoro.

E poi furono tutti intorno a lui, bianchi avvoltoi su una carcassa rossa.
Carica. Una scossa elettrica. Il suo corpo che sussultava violentemente. Poi ancora, e questa volta più forte. E la luce: quella era proiettata sopra la sua testa. Nessun significato ultraterreno, soltanto l’ultima violazione alla sua persona devastata, perché quella cruda illuminazione elettrica ne metteva a nudo la sofferenza. Lui la vide, così come ebbe la possibilità di contemplare il suo corpo dall’alto, nell’atto di abbandonarlo. Prima di essere riportato indietro.
Perché non potevano lasciarlo andare? Tutto, fuorché essere un pezzo di carne morta, imprigionata nel dolore.
Quanto avrebbe desiderato una singola pallottola alla testa: perché lui era uno zombie.
Quanto gli sarebbe piaciuto un paletto nel cuore: perché lui era un vampiro.
Quanto avrebbe auspicato un fulmine dal cielo: perché lui era un mostro.
Ma comprese in che misura la Nera Signora accettasse la superficialità dei mortali. Tutti quelli che osavano deriderla, avrebbero poi dovuto un domani incontrarla. E lei avrebbe reso a ciascuno quanto meritava. Si sarebbe presentata subdolamente improvvisa a chi la temeva, ma si sarebbe al contempo negata a chi tanto la desiderava.
Avrebbe continuato a vegliare su ogni singola esistenza, così insignificante di fronte alla sua eternità.
E sempre avrebbe proiettato sulla realtà umana l’ombra nera di un diavolo custode.

Gianluca Ingaramo