Cigolando infastidito, vecchio e pesante, il portone rivela di esser rimasto immobile per parecchi anni. Non senza opporre resistenza, mi lascia passare. Un rumore! Qualcosa striscia nell’ombra dietro alle mie spalle, poi dall’altro lato. Gli occhi non hanno avuto ancora il tempo di adattarsi all’oscurità. Non mi fermo, non me ne curo. Una porta, poi un’altra, pian piano mi addentro sempre più nella casa abbandonata, allo stesso modo in cui muffa, muschio e l’acre delle feci di topo mi impregnano le narici e buio e freddo mi entrano fin nelle ossa. Poche lame di luce riescono a passare attraverso i polverosi drappi appesi a coprire le finestre, ma ora riesco a distinguere ciò che mi circonda. La sagoma di un divano, di un tavolo e una sedia sfondata giace a terra. Tutto sospeso, immobile.
Scorgo il luccichio dei tuoi occhi, mi avvicino, eccoti! Finalmente ci troviamo faccia a faccia. Mi guardi. Sai che sono venuto qui per ucciderti. Respiri affannosamente, più grosso di quanto immaginassi. Con un sorriso si apre il tuo ringhio, sporco ancora del sangue della tua ultima vittima. Ti abbassi a poggiare anche gli artigli anteriori sulle assi del pavimento per dar maggior slancio all’imminente attacco. Tieni lo sguardo fisso su di me, tua preda. Riempi i polmoni e ti fermi qualche secondo. Tra il pelo madido di sangue, fango e sudore vedo i muscoli degli avambracci contrarsi e scattare. La valanga della tua furia sta per travolgermi mentre mi urli addosso tutta la tua rabbia.
Meno di un attimo e mi ritrovo a terra. Il sangue già mi sgorga copioso dalla testa e dal collo, infilzato da un grosso pezzo dello specchio che fissavo.
La vista si appanna sulla mia mano, la peluria e gli artigli si accorciano.
Muoio. Finalmente.