Sono le due e venti e il cielo mi ricorda tanto la prima volta che baciai Sarah. Sopra di me si staglia un cielo blu scuro tempestato di stelle, con nuvole grigie che l’attraversano ogni tanto; l’unica differenza è che quella volta erano le due e venti del mattino.
Sono quarantotto giorni che non sorge il sole. Un mattino mi alzo per andare al lavoro ed è tutto come l’avevo lasciato quando mi ero messo a dormire. Un mese e mezzo e nessuno ha ancora dato una spiegazione, nessuno è salito su un palco davanti ad una telecamera a dire che si sarebbe risolto tutto.
Da quel giorno l’ambiente intorno a noi è cambiato, impazzito all’idea di non ricevere più la luce solare: gli animali sono morti, fiumi e mari hanno deciso che valeva la pena inondare terre abitate. Dopo un po’ anche le persone sono cambiate: un mattino (o almeno credo) vidi il mio vicino di casa mangiare suo nipote. Gli aveva spaccato la testa con un mattone e stava addentando materia cerebrale: in fondo al giardino, sua moglie stava scaldando la griglia.
Siamo dovuti fuggire nei boschi perché in città non ci si può più fidare di nessuno: la gente non è mutata come in quei film horror da due soldi; sono esattamente come prima, solo con un istinto primordiale in più.
Adesso sono seduto in mezzo a questa radura che guardo le stelle e tutt’a un tratto non mi ricordo più da quanto non vedo mia moglie. Il mio sguardo ricade sul pezzo di prelibata carne che tengo in mano e un dubbio ripugnante mi si insinua nella mente.
Poi il pensiero scompare e addento con gusto la mia cena, tornando a fissare rapito la volta celeste.