Le baracche di legno erano decine, tutte senza riscaldamento. Dentro ci stavano ammassati come bestie nella stalla di un allevamento e le coperte erano insufficienti. Quando nevicava e nevicava spesso, le baracche diventavano invivibili e qualcuno si suicidava. Dal campo era impossibile fuggire. Chi ci aveva provato era stato subito catturato e inviato alla camera della morte. Mjertovjec e Algul si misero seduti davanti alla finestra. L’alba era lontana. Il camino del crematorio fumava come un vulcano. Più sotto, dalle vetrate dell’edificio che sembrava un grande forno, si sentivano le urla.
“C’è un piano” disse Algul.
“I nostri fratelli sono in cenere” rispose Mjertovjec fissando il fumo nero che oscurava la luna.
“Ho un amico in lavanderia” disse Algul, “e fra due giorni porteranno via un grosso carico. C’è una guardia corrotta che è disposta a farci uscire.”
“Non mi fido Algul. Noi siamo buoni lavoratori, forse ci risparmieranno. Ho sentito dire che alcuni vengono mandati nei laboratori per essere studiati dagli scienziati e che tutto sommato se la cavano bene.
“Non è tornato nessuno dai laboratori amico mio,” disse Mjertovjec “questa potrebbe essere la nostra ultima occasione.”
“Non ce la faremo mai, non in pieno giorno.”
“Saremo chiusi nei sacchi neri, il sole non ci sfiorerà neppure. E una volta lontani dal campo la guardia ci lascerà in un granaio.”
Algul tirò fuori dal taschino una fiaschetta d’acciaio “Me l’ha data la guardia in cambio delle sigarette che avevo accumulato, bevine un po’.”
Mjertovjec si ammutolì. Prese la fiaschetta con la mano tremante e svitò il tappo lentamente come se dentro ci fosse stato un genio pronto a volare via. Bevve il sangue a occhi chiusi, in preda all’estasi.
“Ce la faremo” disse Algul sottovoce guardando il camino “non ho intenzione di finire con un paletto nel cuore!”