Soffrivo nel vederla triste.
Glielo promisi, mi impegnai affinché quell’espressione estasiata, conquistata con fatica e malcelato affanno, le potesse rimanere stampata il più a lungo possibile, come una fune lenta da gota a gota, fin quando il peggio non fosse venuto a bussare alla nostra porta.
La colazione a letto, l'unico atto cavalleresco di un San Valentino pilotato, per me era diventata consuetudine: non mangiava più nulla, ma sorridendo rinvigoriva il mio animo.
Caricata sulla sedia a rotelle, godevamo di lunghe passeggiate al sole giù per la nostra tenuta: non un cenno, ma la sua forza mi percorreva, all'incrociarne il sorriso.
La notte, coricandoci l'uno accanto all'altra, sentiva la linfa venir meno: invece la mia, scrosciante, abbatteva la diga di tutte le paure, dirompendomi nel cuore, con l’energia impetuosa del suo viso baciato dalla luna.
L’amore era splendido con lei, movimenti e battiti condivisi dal suo corpo sempre più stanco, ma offerto a quell’atto unilaterale condotto da me, suo unico tesoro: un euforico direttore d’orchestra davanti a file di strumenti abbandonati, che suonavano muti il componimento in divenire che continuavo a scrivere per noi due.
Il giorno dopo, purtroppo, la favola terminò, e la decomposizione fece sì che le graffe perdessero presa sui muscoli facciali, rovinati sulla federa del cuscino in una fantasia mortuaria.
Espressione neutra, almeno non infelice: magra consolazione.
Non pensavo ad altro, troppo straziante l’eco del ricordo di quel sorriso estinto, che sadico martellava le pareti del mio vuoto interiore senza riuscire ad abbatterle... per poi incappare in quella schiena china sul bordo del marciapiede, un’anfora di fluenti spighe di grano che finivano a contornare uno sguardo abbattuto, assorto a mirare l’arrivo dell’autobus: aveva bisogno che io la aiutassi a ritrovare il sorriso, e questo avrei fatto.