Non so come riuscì ad entrare, superando i cani e la recinzione.
Andavo sempre in giro con un bastone, le precauzioni non erano mai troppe, ma quando stavo per colpirla vidi le scarpette di vernice ed il nastro rosa tra i capelli; così anziché spaccarle il cranio la rinchiusi nel granaio.
Lei grattava la porta come un gattino imprigionato.
Le portavo da mangiare, di solito carcasse di animali; se il sangue era fresco le divorava come se fossero ancora esseri viventi.
Col tempo si abituò a me, alle cure che le dedicavo, alla mia umanità viva e pulsante.
La liberai, e da allora non cercò mai di mordermi.
Girava lentamente per il cortile, tutto il giorno, senza una direzione precisa.
Fuori dalla recinzione si radunarono altre decine di morti camminanti. Era da tempo che non ne vedevo così tanti.
Ogni mattino la lavavo accuratamente, e l’odore di decomposizione non si sentiva quasi più. Non accennò mai a ribellarsi, neanche quando con un grosso ago le cucii lo squarcio che aveva sul viso.
Le facevo indossare i vestiti della mia povera Marta, e vi giuro che sembrava una bambina viva e bellissima.
Però non mi apparteneva.
Fuori c’era quella donna che la fissava sempre.
Allora un giorno guidai la bambina per mano, e la lasciai uscire fuori dal cancello; ma appena feci scattare il meccanismo di sicurezza, accadde qualcosa di inaspettato.
La donna fu la prima. La afferrò e le morse il collo dilaniandolo. Poi arrivarono gli altri, le strapparono le braccia, le gambe, e si accanirono sul corpicino squarciandolo e sventrandolo.
I suoi resti marcirono fuori dalla recinzione per mesi: ossa e brandelli di carne sempre più indistinguibili tra le erbacce, il vestito strappato, ed il lungo nastro rosa che il vento faceva sventolare tra mulinelli di polvere.