Doveva essere un colpo facile. Toccata e fuga, l’aveva chiamato Raffaele.
“Entriamo, spaventiamo i cassieri, arraffiamo il contante e scappiamo.
Facile, no?”
Sulla carta, sì. Però non aveva fatto i conti con Michele.
Io l’avevo detto, a Raffaele, che non volevo quello schizzato nella banda.
“Ci farà beccare tutti, un giorno o l’altro,” gli ripetevo.
“È un tipo un po’ nervoso, bisogna solo tenerlo calmo,” minimizzava
Raffaele.
Come da copione, entrammo in banca alle quindici in punto, pistole in pugno
e facce nascoste dai passamontagna.
“Fermi tutti o vi facciamo saltare la testa,” si mise a sbraitare Michele.
Adorava quella frase.
In banca c’erano solo un cassiere, una signora impellicciata e una guardia
giurata obesa che pareva sul punto di avere un infarto.
Raffaele sventolò la pistola sotto il naso del cassiere: “Dammi i soldi.”
L’uomo, mordendosi le labbra, aprì la cassetta di sicurezza. Raffaele
cominciò a riempire il sacco di plastica.
Io controllavo l’uscita, mentre Michele teneva sotto tiro la cliente e la
guardia giurata. Forse fu spinto dall’adrenalina che gli pompava nel
cervello, o dalla sua innata avidità. Commise un errore.
Si avvicinò alla signora impellicciata e le disse: “Lei se la passa bene,
signora. Che ne dice di spartire un po’ dei suoi tesori con noi proletari?”
La donna si appiattì pigolando contro la parete, come a cercare riparo, e
Michele ordinò: “Sgancia la grana, sorella.”
“Lascia perdere. Abbiamo quasi finito,” dissi.
“La grana,” ripeté Michele ignorandomi. La donna, scossa dai tremiti, gettò
a terra borsa e pelliccia.
Poteva bastare, ma Michele non si accontentava di rubare. Lui voleva
umiliare.
“Anche la bigiotteria, cara,” disse accennando col capo agli appariscenti
anelli che adornavano le dita esili della signora.
Raffaele gli andò vicino per farlo ragionare: “Senti, non ci serve questa
roba. Andiamo via prima che...”
Fu allora che la guardia giurata provò a estrarre la pistola dalla fondina.
Lo vedemmo tutti, ma Michele fu il più veloce ad agire. Gli sparò tre volte
in pieno petto, mandandolo a cappottare contro una bacheca di legno.
La donna urlò. Michele sparò anche a lei, alla testa. Un fiotto di sangue e
materia grigia macchiò il lucido parquet.
“Cazzo fai?” urlai. La rapina stava andando a puttane.
Con la coda dell’occhio, vidi che il cassiere correva verso la scrivania.
Gli svuotai addosso il caricatore. Invano. Una sirena squarciò la quiete del
pomeriggio. Il maledetto era riuscito a premere il tasto d’allarme.
Raffaele dovette urlare per sovrastare quel frastuono lacerante: “Andiamo
via, a minuti gli sbirri saranno qui!”
Infilammo come razzi la porta a vetri, aprimmo le ali e spiccammo il volo.
Appena in tempo. Guardai in basso e vidi due volanti della polizia che
inchiodavano davanti alla banca. Gli agenti corsero dentro con i mitra
spianati.
Volavamo in silenzio, con il vento che ci scompigliava i capelli e faceva
frusciare le vesti. Michele sapeva di averla fatta grossa e non osava
incrociare i nostri sguardi.
Dovevo sfogarmi. “Sei un imbecille, Michele,” lo aggredii, quasi sputazzando
dalla rabbia, “ci hai messo tutti in pericolo.”
“Lo so, ho fatto una cazzata.” Sembrava sollevato all’idea che qualcuno gli
rivolgesse la parola. “Mi sono fatto prendere dall’euforia, ma la prossima
volta...”
“Non ci sarà una prossima volta,” disse Raffaele, “Gabriele mi aveva già
messo in guardia contro di te. Io non l’ho ascoltato, e per poco non ci hai
fatto beccare. Sei fuori dalla banda.”
“Ma... non è giusto... io...” balbettò Michele.
“Avrai la tua parte, ma sei fuori dalla banda,” ripeté Raffaele. Quando
parlava con quell’intonazione dura non c’erano margini di trattativa, e lo
sapevamo tutti.
Michele chinò il capo, accettando il verdetto. “Va bene, ma non ditelo al
Boss,” pregò con un filo di voce. Lo spietato rapinatore aveva lasciato il
posto a un bambino impaurito. Il Boss non perdona chi sbaglia.
“È inutile,” disse Raffaele, adesso con una punta di pietà, “lo sai che
quello vede tutto.”