Ricordo che quella mattina feci molta fatica ad alzarmi, le mie gambe
pesanti e deboli a malapena mi sollevarono dal letto. Arrivato allo
specchio, il viso pallido e le occhiaie marcate mi ricordarono
improvvisamente, come una firma indelebile, la passata notte ove navigai
chissà in quali posti lussuriosi, con chissà quanto assenzio in corpo e
quanto veleno nel sangue.
Mi destai da questo tuffo confuso nella mente e mi girai a guardare la
stanza, in cerca di cibo per risanarmi. Mi sentivo il degrado perso nel
degrado.
Una luce leggera si destava nella stanza, il sole era già alto nel cielo e
timido entrava dalle persiane, illuminando le spoglie pareti e quei pochi
oggetti e vestiti che adornavano le mie quattro mura.
In casa ero solito stare seduto e scrivere o leggere su di un piccolo
tavolo, il quale mi era stato regalato con una vecchia sedia da un
conoscente, posizionato sotto l’unica finestra, così da catturare tutta la
luce necessaria. Nell’angolo del tavolo vi era un vecchio candelabro per le
letture notturne, ormai irremovibile perché fissato dalle molteplici colate
di cera. L’atmosfera creata dalle letture a lume di candela riusciva a
rendermi ogni racconto più avvincente, ogni poesia più intensa, ogni storia
più vicina a me. Opposto al tavolo, nell’angolo meno illuminato, si trovava
un vecchio letto a castello, seconda ed ultima mobilia della stanza;
ovviamente non vi è dubbio alcun sul fatto che dormissi nel letto inferiore,
decisamente facile da raggiungere viste le mie difficoltà a rincasare
lucido.
La fame si faceva sentire, così indossai la prima giacca che vidi ed uscii.
Fuori la luce mi feriva gli occhi e ci misi qualche minuto ad abituarmi;
iniziai a camminare per il quartiere deserto, avrei raggiunto la taverna in
fondo alla strada sperando in un piatto di zuppa calda. Il silenzio nella
strada faceva echeggiare il rumore dei miei passi, pesanti ed aritmici,
accorgendomi così solo dopo un centinaio di passi di essere l’unica persona
per il quartiere. La nebbia mascherava le case ed io mi sentivo come un
cieco che raggiunge la propria meta poco per volta, basandosi sulla memoria
di una strada fatta mille e mille volte.
Consumato dal calvario riuscii finalmente a raggiungere la taverna: l’odore
impregnato nel legno della porta era inconfondibile, un’insieme di odori di
vinaccia, assenzio, grappe, distillati e fumo, tutti mischiati dal tempo; un
odore nauseabondo, ma che raccoglieva in sé centinaia di storie vissute tra
sbronze, prostitute, risse e quanto altro. Afferrai la maniglia per entrare
e, sentendola sudicia e appiccicosa, capii che nessuno aveva pensato di
pulire dalla sera precedente, e se già l’odore di quel legno mi sembrava
insopportabile, il peggio doveva ancora arrivare.
Entrai e fui subito investito da un’ondata di puzzo di vomito e fumo che mi
diedero il voltastomaco: mi tappai il naso per qualche secondo, mentre
scendevo i quattro scalini dell’ingresso.
La taverna era divisa in due grandi sale: la prima, dove si trovava un lungo
bancone sulla sinistra ed una decina di tavoli di fronte ad esso, e la
seconda, divisa da grossi drappeggi color porpora, riempita anch’essa da
vecchi tavoli rigorosamente in legno scadente (per facilitare l’effetto
impregnante dell’alcool). I bagni si trovavano invece in un cortile
adiacente il locale; di questi però, per rispetto verso il gentil sesso, ne
ometterò la descrizione.
Riacquistato il respiro mi avvicinai al bancone, aspettando che qualcuno si
facesse vivo. Nell’attesa cercavo di riordinare i ricordi della notte brava,
che tanto mi aveva rovinato visti i postumi fisici e la più totale amnesia.
Durante quest’inutile sforzo sentii dei rumori provenire dal cortile: poco
dopo entrò il tanto aspirato ostiere. Sul punto di aprir bocca per ordinare
la zuppa, il mio sangue si gelò nelle vene ed il mio viso, già pallido per
la stanchezza, si fece ancor più bianco per la paura. Non riuscivo a credere
a ciò che vedevo: come la coda del serpente segue sempre la testa, nello
stesso modo un secondo ostiere, identico al primo, apparve dietro di esso!
Ero confuso, non capivo cosa mi stesse succedendo o mi sfuggisse, e così
rimasi impietrito per diversi istanti. Nel frattempo i due si accorsero
della mia strana ed inaspettata presenza e con altrettanto stupore rimasero
innanzi a me, fissandomi sbalorditi nel più totale silenzio.
Giuro che mai, né mai più da allora, provai un tale senso di angoscia e
terrore: nemmeno il più inquietante racconto di assassini, o la più
allucinante storia di fantasmi e tombe profanate potevano essere paragonati
a ciò che stavo vivendo! Sentivo i nervi tirati come le corde di una
chitarra, il mio cuore batteva con un’aritmia spaventosa ed il pulsare
violento del mio sangue mi bloccava il cervello, come in una terribile
morsa. Non riuscivo più ad aprir bocca, mi sentivo spaesato e, per quanto
grottesca fosse l’immagine che vedevo, sapevo dentro di me che qualcosa mi
sfuggiva. Ritornato in me mi allontanai di scatto dal bancone, mentre le due
diaboliche figure non distoglievano per un solo secondo lo sguardo dal mio
volto. Necessitavo di uscire da quella situazione, così cercai aiuto nella
seconda sala della locanda.
Giuro solennemente che se potessi rivivere il mio passato, mai ripeterei
questo imperdonabile errore; fattomi spazio tra gli impolverati tendaggi, mi
ritrovai catapultato nel peggiore incubo che qualunque uomo possa mai
immaginare: seduti ai tavoli comodavano, in felici sguardi e simpatiche
espressioni malefiche, almeno una dozzina di persone, tutte perfettamente
accoppiate, ognuna con una propria ed identica figura gemella! Rabbrividii a
tale visione e, sconcertato, quasi svenni. Nello stesso modo tutti i clienti
della locanda, figure a mio parere salite quello stesso giorno dall’inferno,
frenarono le loro discussioni, si zittirono e si girarono verso di me.
Venivo osservato, scrutato ed analizzato con un tale sgomento che, a quel
punto, mi sentivo io la figura assurda, l’estraneo, il deforme incompreso ed
incomprensibile.
Ebbi un forte calo di pressione, la vista mi si annebbiò e tutto si fece
poco a poco distorto; avevo bisogno di uscire, dovevo scappare e raggiungere
al più presto casa mia, per potermi rifugiare e comprendere gli assurdi
incontri vissuti nella taverna.
Uscii di fretta tra i continui sguardi impietriti dei presenti. Ero convinto
di essere finito nell’antro dell’inferno e sicuro che, una volta fuori da
lì, sarei stato salvo da ogni strano incubo: ovviamente non fu così.
Tornato in strada mi trovai di fronte alla più incomprensibile delle
situazioni. Si era ormai fatto pieno pomeriggio e le strade si erano
riempite, ma non di un normale via vai di persone indaffarate, di ubriaconi
e di puttane, bensì da una inspiegabile flotta di doppie figure che
riempivano i marciapiedi! A quel punto svenni nel bel mezzo della strada...
... fui risvegliato a suon di ceffoni da due anziani, perfettamente identici,
i quali attirarono l’attenzione di alcuni passanti: mi trovavo così steso a
terra, nella più totale confusione e circondato da un numero imprecisato di
persone (ovviamente con le loro medesime figure gemelle), le quali mi
fissavano e parlavano tra di loro, indicandomi con una strana aria di
compassione e pena. Ero forse veramente io l’inquietante figura? Ero forse
io lo strano essere che destava scalpore? Cercai di rialzarmi e riprendere
conoscenza per allontanarmi dalla bolgia di demoni saliti dagli inferi per
alimentare la mia pazzia. Mentre mi riassettavo riuscii a scrutare con
attenta devozione i due vecchi che mi schiaffeggiarono; fino ad allora la
paura al sol vedere ogni uomo o donna con la copia di se stesso mi lacerava
la mente e mi riempiva di interrogativi angoscianti, ma dopo cotante
visioni, ed a paura placata (o almeno leggermente sopita) potei analizzare
la situazione con maggiore razionalità. Osservai attentamente il volto dei
due sconosciuti, i lineamenti e le posture. Erano due uomini anziani dai
bianchi capelli di media lunghezza e dai sottili baffi, molto ben curati.
Sicuramente facevano parte dell’alta borghesia, visti i fantastici ricami
sulle pulitissime giacche di velluto blu, classico colore regale. Notai come
essi parlavano l’uno con l’altro e fu lì che iniziai a notare le prime
differenze: mentre l’uno soleva inarcare la parte destra del labbro
superiore, l’altro presentava un fastidiosissimo tic al naso. Fu da questa
piccola analisi che ricominciai a ragionare e realizzai così pian piano ogni
mio tormento e quesito.
Soggiogato dalla fame, confuso dall’ebbra serata e sicuramente distrutto
dalle poche ore di sonno, avevo vissuto come un incubo tremendo ciò che la
luce del sole, la quale iniziava a bucare la nebbia in dissolvenza, mi stava
ormai mostrando con semplice chiarezza.
Mi rialzai frettoloso, scrollandomi di dosso la polvere della strada;
sentivo un’irrefrenabile voglia di conoscere l’epilogo di questo strano
viaggio! Ringraziai con poca attenzione i due anziani e mi allontanai di
corsa dalla folla raccolta, per dirigermi a casa. Non stavo più nella pelle,
necessitavo con ansia estrema la verità che sapevo stava tra le mie spoglie
quattro mura domestiche.
Arrivato sul pianerottolo spalancai con forza la vecchia porta d’ebano che
mi divideva dalla soluzione e, con grande scalpore, ma infinita gioia, tirai
un sospiro di sollievo nel vedere ciò che tanto mi aveva creato confusione
in quel nero mattino di nebbia: seduto a quel piccolo tavolo, il quale mi
era stato regalato con una vecchia sedia da un conoscente, posizionato sotto
l’unica finestra, stava immobile, immerso totalmente nella lettura, il mio
secondo me stesso.
Colui senza il quale avevo appena vissuto un incubo in uno strano pomeriggio
di nebbia.