Alle 7 e 32 del mattino Manlio superò il camion della nettezza urbana.
Era in ritardo, come al solito. Il giorno prima il suo capo, il signor
Ansaloni, gliel’aveva detto fuori dai denti: “Arriva tardi un’altra volta e
ti lascio a casa.”
Manlio aveva assunto quell’aria contrita che gli riusciva tanto bene, e
aveva promesso: “Non succederà più.”
In realtà stava già pensando alla birra che lo aspettava al bar. Bionda,
gelida, schiumosa birra da tracannare in un sorso solo.
E adesso, dopo aver fatto festa fino alle tre e dormicchiato un paio d’ore,
pigiava a tavoletta l’acceleratore della sua Punto a metano. Aveva la bocca
impastata e una paura fottuta di venir licenziato.
“Ce la faccio, ce la faccio,” ripeteva mentre sfrecciava lungo la stradina
di campagna. Per uno strano colpo di fortuna, quella mattina non aveva
incrociato nemmeno un veicolo.
Poi vide il camioncino, lentissimo e carico d’immondizia, che procedeva
sbuffando al centro della strada. Era uno di quei vecchi modelli con il
braccio meccanico sul fianco destro.
“Fanculo,” disse Manlio, e lo superò senza nemmeno controllare che l’altra
corsia fosse sgombra. Guardò il muso del camion nello specchietto
retrovisore e riprese la sua lotta contro il tempo.
Accelerò ancora. Le case e i campi erano macchie indistinte.
Manlio guardò il display. Le 7 e 34. Accese la radio e si mise a cantare
assieme a lei, compiaciuto. L’avrebbe fatta franca anche stavolta.
Quasi si mozzò la lingua, quando il camion della nettezza urbana lo tamponò.
Manlio non credeva ai propri occhi. Il piccolo camion bianco gli stava
incollato al culo e sembrava quasi volerlo spingere avanti. “Che cazzo fai,
imbecille?” Abbassò il finestrino e mostrò il dito medio. “Chi ti ha dato la
patente?”
Il camion si staccò. Finalmente l’ha capita, pensò Manlio.
Il camion accelerò e lo speronò di nuovo. L’impatto fu talmente violento che
due sacchetti d’immondizia caddero fuori dal cassone. Uno atterrò sul
lunotto posteriore della Punto e rimbalzò a terra, lasciando una scia di
unto sul vetro.
Manlio non era più sorpreso. Era incazzato nero. Si sporse con tutta la
testa, incurante della strada che si snodava davanti a lui. “Testa di cazzo!
Malato di mente!” Era controluce e non riusciva a scorgere l’autista. “Devi
andare a farti vedere da uno bra...”
Più che vedere la curva, la intuì. Si gettò sul volante e sterzò con
violenza. Le gomme guairono come cani bastonati. Mancò il fosso di pochi
centimetri.
Stavo per ammazzarmi, realizzò Manlio, il sangue che gli martellava contro
le tempie. Guardò lo specchietto. Il camion della nettezza urbana era sempre
lì. Forse era il riflesso a ingannarlo, ma gli sembrava che la griglia del
radiatore si fosse piegata in un sorriso beffardo.
Manlio tremava vistosamente, adesso.
Strinse il volante fino a far diventare bianche le nocche, e la cosa lo
aiutò a calmarsi. Esaminò le opzioni.
Poteva telefonare alla polizia. Si tastò le tasche e sentì il vuoto. Aveva
dimenticato il cellulare a casa.
Poteva accostare e scappare a piedi, ma l’autista del camion avrebbe potuto
fare lo stesso e continuare a inseguirlo. E lui non voleva trovarsi faccia a
faccia con quel pazzo.
Poteva attirare l’attenzione degli altri automobilisti. Manlio si attaccò al
clacson e cominciò a strombazzare. Inutile. Non c’era nessuno oltre a lui e
al camion. Com’era possibile? Quella strada di solito era molto trafficata.
Il camion, che si era mantenuto a una certa distanza, tornò alla carica.
Manlio lo teneva d’occhio e premette l’acceleratore fino in fondo. La Punto
balzò in avanti.
Ottanta, novanta, cento chilometri orari. A quella velocità rischiava di
andare a schiantarsi a ogni curva.
Il camion lo tallonava senza alcuno sforzo. Manlio controllò il tachimetro.
Era a centodieci.
È assurdo, pensò, un camion dell’immondizia non può andare così veloce. Gli
pareva di essere il protagonista di quel vecchio film di Spielberg. Come si
chiamava?
Sputando una nube di gas nero, il camion bruciò i pochi metri che li
dividevano e invase l’altra corsia. Per qualche secondo i due veicoli
viaggiarono appaiati. Neanche allora Manlio riuscì a vedere la faccia del
guidatore. I vetri erano oscurati.
Forse il guidatore non c’era. Il camion doveva avere una propria coscienza.
Una coscienza cattiva. L’idea, per quanto assurda, lo terrorizzò.
Guardò l’ora senza vederla veramente. Le 7 e 40. Le minacce di Ansaloni
erano qualcosa di remoto, distante.
Inaspettatamente, vide una possibilità di salvezza. Bastava frenare, e fare
inversione di marcia. Il camion era troppo ingombrante per imitarlo, e lui
avrebbe avuto un vantaggio sufficiente per...
Il camion strinse verso destra, il braccio meccanico che cominciava ad
alzarsi.
“Ehi, che cazzo combina, adesso?” disse Manlio. Poi capì, e la domanda
divenne un urlo.
Il braccio meccanico arpionò la Punto appena sotto la portiera anteriore e
la scagliò in aria come fosse un fuscello. La macchina si capovolse e
atterrò con un boato terrificante. Restò così, accartocciata, le ruote che
ancora giravano.
Il camion si fermò sul ciglio della strada, forse per contemplare il
disastro. Manlio lo vide attraverso una cortina di dolore, il sangue che gli
impiastricciava gli occhi.
Si chiamava Duel, fu il suo ultimo pensiero.
***
Il signor Ansaloni era davanti alla finestra. Vide un’ambulanza sfrecciare a
sirene spiegate, e un camioncino della nettezza urbana procedere a passo
d’uomo in senso opposto. Andò alla scrivania e schiacciò irritato
l’interfono: “Signorina, Manlio è arrivato?”
“No, signor Ansaloni,” rispose la segretaria.
“Quando arriva, ditegli che è licenziato.”
Chiuse la comunicazione e scosse la testa. “Quel ragazzo mi ha proprio
deluso”, borbottò.