- Gente di Babilonia, ascoltate! La fine si avvicina, abbandonate la fede
nell'Ingranaggio, ascoltate la voce del vostro ultimo profeta!
Così gridava nella piazza gremita di folla dallo sguardo fosco il “profeta”.
I capelli scarmigliati, vestito di una tunica rossa, gli occhi a tratti
vacui, a tratti percorsi da un fuoco demoniaco.
Stava sul palco appositamente costruito per le esecuzioni, costruito sopra
il Pozzo. Enormi soldati meccanici montavano la guardia tutt'intorno e la
folla si teneva istintivamente lontano dai colossi dalla testa rossa;
soltanto un programma teneva in quel momento a freno la loro furia bestiale,
che diceva: “non uccidere”. Altrimenti si sarebbero lanciati sul condannato
come un turbine rosso e lo avrebbero dilaniato, facendone piovere i resti
sulla folla in un battito di ciglia. I loro muscoli di ferro si tendevano
nello sforzo di assecondare il programma, perfettamente immobili, gli occhi
come torce.
- L'Ingranaggio non è il vostro padrone! - gridò il “profeta” - Ascoltate la
mia voce, io scenderò nell'Abisso e là troverò i segreti, e gli antichi veri
uomini: e risorgerò dal baratro e porterò la Sapienza perduta tra voi, amati
fratelli, gente di Babilonia!
L'aria era nera, e buia, rischiarata soltanto da due enormi lampade;
nell'intrico d'acciaio di Babilonia era sempre notte, città costruita come
una tana di vermi, di gallerie montate le une sulle altre, palazzi su
palazzi, città sopra città.
La voce del “profeta” si perdeva in modo strano nella non ampia piazza,
sotto la volta gobba, come se dovesse percorrere intere parasanghe di
spazio: che il Pozzo nero risucchiasse non solo la luce, ma anche la sua
voce?
Anche da quello la gente si teneva lontano, nonostante vi fossero comunque
grandi grate di protezione, con tanta paura quanto si teneva lontano dalla
voce del “profeta”. Provenivano strani suoni dal Pozzo, la gente lo poteva
avvertire, ma nessuno lo avrebbe detto a voce alta. Nemmeno nei suoi
pensieri. Avrebbe preferito, ogni singolo cittadino venuto a vedere
l'esecuzione, che uscisse sangue dalle loro orecchie piuttosto che vi
entrassero quei suoni.
Cos'erano?
Voci “umane”?
Voci di bestie?
O qualcosa di ancora più spaventoso?
Provenivano a ondate, come se rispondessero alle invettive del “profeta”, ma
nessuno, nemmeno il “profeta”, comprendeva la loro natura, il loro
significato, e addirittura se avessero un senso.
Per i cittadini erano “sospiri del Pozzo”... no!, non erano nulla, le vostre
orecchie vi hanno ingannato!, non ci sono “cose”, là dentro, non ci sono
uomini in quella forra nera!
Per il “profeta” erano le voci leggere di spiriti.
Per i soldati meccanici erano voci umane.
Per i Sacerdoti Meccanici là presenti, i volti nascosti sotto alle maschere
bianche di giovinetto, erano un'altra cosa ancora (e loro ne comprendevano
il senso).
Ma poi la folla si divise a metà, come due fette di pane segate da un
coltello. Un'aereoslitta procedette speditamente fino al palco e si arrestò
scricchiolando. Ne uscirono tre uomini, più un altro. I tre uomini erano
soldati, il primo, alto e grosso, completamente calvo, con una cicatrice che
gli copriva come una ragnatela il volto; il secondo, brizzolato e basso, con
la faccia come un asino; l'ultimo, inferiore di grado agli altri due, ma con
gli occhi come un condor dentro a una faccia emaciata.
E poi l'altro, grande, vestito di bianco, ovvero vestito con un grembiule da
cuoco, la mascella quadrata, che era anche più grosso del soldato calvo.
Reggeva, uscendo dall'aereoslitta, un pentolone colossale, che sembrava la
pentola del demonio da come era nera.
Senza sforzo seguì su per le scalette del palco i tre ufficiali e il
“profeta” li vide, e gridò: - Ecco arrivano il cane, l'asino e il condor! E
l'unico uomo che abbia visto da molti cicli a questa parte: eccolo che porta
il mio ultimo pasto mortale!
- Basta farneticazioni! - intimò il “cane” - Dovresti avere almeno un po' di
paura, per quello che ti attende!
- M-ma che cosa n-ne sa, di quello che-che lo aspetta? - disse balbettando l'“asino”.
Il condor non parlò, ma fissò con i suoi occhi sporgenti il “profeta”,
scrutando la sua follia.
- Io lo so che cosa vado a trovare, lo sapete voi cosa perdete stando qui,
nel buio dell'Ingranaggio? - li sfidò il “profeta”.
I tre soldati sorrisero, un sorriso di cane, un sorriso sciocco di asino, un
sorriso spietato da condor.
Ma il cuoco si fece avanti e poggiò rumorosamente il pentolone sul tavolo
approntato, e con voce stentorea disse: - Sono venuto a portare un ultimo
pasto per un condannato, non per sentire questioni sofistiche! Ora, mangia!
Il “profeta” disse: - Mi siedo, e mangio! Ma anche tu, cuoco, siediti con me,
e fammi compagnia! Voglio parlare con un uomo, prima di andare! Non con un
cane, o con un condor, e nemmeno con un macinino meccanico!
Il cuoco non aspettò che il cane o il Sacerdote Meccanico, dall'altra parte
del tavolo, che non aveva mai parlato, dessero il loro assenso. Prese una
sedia che pareva messa là per lui e si sedette, e nonostante questo era alto
più del “profeta” che era ancora in piedi.
Il cuoco disse: - Serviti, “profeta”!
Il “profeta” si servì dal pentolone, e così fece il cuoco. E il cuoco,
mangiando senza scomporsi sotto gli occhi della folla, gli occhi di metallo
dei soldati meccanici, gli occhi inumani del cane, dell'asino e del condor,
e gli occhi ciechi del Sacerdote, disse: - Per quale motivo ti caleranno nel
Pozzo, “profeta”?
- Perché ho insultato le civette meccaniche astropati, non lo sai cuoco?
- E non ti chiesero di ritrattare? Dopotutto bastava dire che avevi avuto uno
scompenso celebrale, o una fluttuazione nell'inconscio refluo, quelle cose
dei Sacerdoti, mi capisci...
Il “cane” lo fissò in cagnesco, il Sacerdote lo fissò con la faccia d'osso
di un giovinetto, ma il “profeta” rise di cuore, e disse: - Questo stufato è
molto buono! No, caro amico, nessun scompenso nell'inconscio refluo:
semplicemente ho guardato una volta di più quelle maledette civette e mi
sono chiesto: “perché le mie decisioni per i prossimi cinque minuti devono
essere prese da un blocco di ingranaggi?”. Vedi, caro amico, “prevedono” il
futuro per i prossimi tre minuti, prevedono se un cittadino sta per
accoltellarle qualcuno, se un ladro ruberà, se un'amante perderà l'amore (ma
che dico, “amore”, nella Babilonia di metallo? Guarda come inorridiscono le
persone, qua sotto, al solo sentire il nome, guarda il condor, come
ghigna!)... ma avrò il diritto, vivaddio!, di ammazzare qualcuno, di avere
la mia vita diritta, senza che un ammasso di ingranaggi mi scopra prima e mi
conduca a questi soldati meccanici? Cosa ne dici, cuoco?
Il cuoco spezzò del pane per tirare su il sugo, e rispose: - Ma le civette
sono ancora là... quindi, perché dire quelle parole (che tra l'altro le
civette già lo sapevano che le avresti dette... già tre minuti prima di
fissarle eri già condannato, già i soldati meccanici erano sulle tue
tracce!), che senso ha avuto, se per questo devi morire?
- Amico mio, io andrò nel Pozzo; può sembrare sciocco, ma io vedrò tutto
quello che era Babilonia, prima di venire seppellita, prima di diventare di
ferro. Là sotto sono gli antichi palazzi di Ishtar!
- Vi sono anche esseri di cui è meglio non parlare!
- No, amico mio, sono solo uomini! Uomini buttati là sotto, come me, uomini
liberi dalle civette, e dai Sacerdoti! Liberi dall'ingranaggio!
Ma il “cane” improvvisamente disse: - Basta! E' l'ora! Non ti è concesso
parlare di più, tu che ti sei autonominato “profeta”! Profeta ben misero,
che non sai nemmeno prevedere la tua fine!
Il “condor” ghignò ancora e venne preparata la cesta. E il “profeta” disse
al cuoco: - Ti saluto, ultimo uomo!
E montò teatralmente nel cesto e tra le grida di paura della folla venne
calato giù, nel buio. E ancora quel vento, quel suono bestiale, quelle voci,
salivano dalle profondità.
E il cuoco disse al “cane”: - Chi era, prima di diventare un “profeta”?
- Solo ieri era un impiegato all'Ufficio delle Intenzioni Fallite... -
rispose il “cane”.
Mentre il cesto del “profeta” scendeva, ne saliva per contrappeso un altro e
il cuoco vide che era pieno di cose che non avrebbe saputo nominare. Grossi
affari quadrati, come scatole, ma costituiti da fasci di fogli sottili,
incollati gli uni sugli altri, fino a creare lo spessore tra una costa e
l'altra della “scatola”. E affari ancora più strani. E il “cane” esclamò:
- Distogliamo lo sguardo, cuoco! Questa è una vista che può sostenere solo un
Sacerdote!
Il cuoco si volse da un'altra parte e disse: - Per il “profeta”... avete
scambiato quello che si trova là sotto? Allora come egli diceva, vi è
veramente una miniera di... “cose” di antica sapienza?
- Non fare domande, cuoco!
- Ma vi sono uomini, allora, nel Pozzo? Che raccolgono nelle tenebre quegli
oggetti?
- Per Ulkimmu Lamnati! - bestemmiò il “cane” - Vuoi anche tu essere gettato
laggiù?!
Ma il cuoco insistette: - Ma non lo senti, “cane”?
- Non sento nulla!
- Io lo sento... sento le voci dal Pozzo... possibile che nessuno le oda? -
fece il cuoco, con la grande fronte piegata.
- E cosa direbbero, queste voci?
- ”Fame”!
Allora il “cane” lo prese da parte e abbassandolo alla sua bocca, disse in
un bisbiglio: - Ascolta, cuoco! Il “profeta” crede di andare a vedere la
Sapienza: ma gli “uomini” di laggiù sono bestie, sono più bestie di questo
popolo che obbedisce alle civette meccaniche! Egli non va a vedere il
passato, ma per venire mangiato! Gli “uomini” del Pozzo non vedono mai vera
carne: noi spediamo loro la carne e loro raccolgono per gli occhi ciechi dei
Sacerdoti quella sapienza che noi non possiamo neppure guardare!
Allora il cuoco disse: - Allora ho fatto bene!
- ”Bene”? Che intendi, parla!
- Ho fatto bene ad avvelenare il cibo del “profeta”! - esclamò - Egli invero è
già morto, quando ancora scendeva nella cesta! Non mangeranno carne di un
uomo vivo, quelli là sotto e anzi, se lo mangeranno, moriranno a loro volta!
- Tu! Pazzo! Perché hai fatto una cosa simile?
Il cuoco scrollò le grosse spalle. - Perché è diventato libero, anche solo
per qualche attimo! Di certo per qualche secondo le civette meccaniche non
hanno indovinato il suo futuro: e chissà che cosa ha visto, in quell'attimo,
se il paradiso o il mondo del Passato!
Dal fondo del Pozzo venne un lungo ululato scontento, feroce, ma soltanto il
cuoco fu in grado di sentirlo.