Il mio nome è Marco e sono un ragazzo di 12 anni, abito in un paese che si
chiama Betania.
Betania è un sobborgo anonimo, dove non c’è nulla.
L’unica cosa che ci dà una scossa qui, è una gran noia mortale, perché non
succede praticamente mai un cavolo di niente.
Quattro giorni fa però è successo un qualcosa dove la noia è stata
sopraffatta: è venuto a mancare zio. Una morte prematura ed inaspettata.
Così dalla noia, nella mia famiglia, siamo passati al dolore, alla
condivisione di una sofferenza lacerante. Le sorelle di zio, mia madre Marta
e mia zia Maria non si danno pace, non trovano alcun appiglio per provare
conforto. I loro occhi sono rossi, gonfi di lacrime e se vanno avanti così,
al posto delle lacrime piangeranno sangue.
È una spirale che stritola le loro anime, notti insonni condite dai
singhiozzi e mentre delirano sulla figura del caro estinto, si contorcono il
ventre, come se avessero le budella che si stanno annodando.
Io sono solo un ragazzino e non ho ancora capito cosa vuol dire la mancanza,
è un concetto che mi ha tagliato, ferito ma non sento quel dolore come
accade a mia madre ed a mia zia.
Così cerco rifugio nella campagne lì vicino, uno spazio dove posso stare
tranquillo.
Sopra una pianta di ulivo io e il mio amico Teo abbiamo costruito una
casetta rurale, lì posso fantasticare con la mente e allontanarmi da una
realtà troppo responsabile, troppo angosciante per un ragazzino della mia
età.
Da lontano vedo Teo che arriva di corsa. Si ferma sotto il nostro campo base
con il fiatone, fa una pausa, mani sulle ginocchia e boccheggia per prendere
fiato, per preparare la frase che vuole dirmi:
“La sai l’ultima? In paese sta arrivando il pazzo mitomane”
Io dopo uno sbadiglio:
“Chi cazzarola sarebbe?”
Teo riprende fiato:
“Dai è quello che dice un sacco di balle e qualcuno ci crede pure alle sue
frottole, in giro sta combinando dei casini belli grossi, tua madre e tua
zia l’hanno chiamato!”
Il dolore, la sofferenza dell’anima fa fare certi tentativi dove
l’impensabile prende quota.
Scatto in piedi.
“Scusa quale sarebbe il suo intento? Riportare in vita lo zio?”
Teo ha smesso di boccheggiare nonostante il caldo afoso di quel pomeriggio
arido.
“Esatto!”
Decidiamo di tornare in paese, la camminata è veloce con lunghe falcate,
anche perché il pazzo furioso all’opera non voglio perdermelo, poi quando mi
ricapita più un’occasione così?
Mentre ritorno, rifletto sullo zio, tutti in paese gli volevano bene, era
rispettato e ha sempre fatto gesti benevoli e per le sue sorelle, vedere la
sua tomba ogni giorno è come vedere un diamante incastonato nella merda.
Dove hanno sepolto zio è una sorta di piccola vallata, io e Teo ci
accucciamo silenziosi a distanza, dall’alto vediamo il folle, sembra lucido
ma i suoi occhi, così celesti così grandi hanno un forte magnetismo.
Ora c’è lui in piedi davanti la tomba e lì vicino, sedute, nello strazio
profondo, ci sono mia madre e zia che pregano invano che la magia possa
funzionare.
Non lo so, forse sembra fatto apposta, ma siamo arrivati appena in tempo, il
folle in preda alla sua pazzia, china leggermente la testa all’indietro, gli
occhi si girano e si vede solo il bianco lucido, una mano verso la tomba di
zio come se volesse tirarlo, issarlo fuori con una corda immaginaria. La sua
voce rimbomba leggermente, per noi è pazzia allo stato puro, lui si fa
chiamare Gesù e dice:
“Lazzaro vieni fuori!”
Non c’è attesa, nessuna atmosfera, nessun silenzio, è tutto automatico: una
piccola nube di polvere si alza dalla tomba, la mano di zio avvolta dalle
bende risorge, contorce le dita per afferrare quella linfa di vita
risucchiata troppo presto, il suo verso è un lamento, dice una “O” troppo
gutturale per essere reale, quasi più animale.
Le urla delle sorelle rimbombano, ed il loro eco giungerà fino a Betania.
Sono un ragazzo abruzzese nato nel 1978, mi piace il genere horror in tutte le sue forme ed espressioni: cinema, letteratura, fumetti e pittura.